La rassegna “Femminile palestinese” quest’anno alla settima edizione, curata da Maria Rosaria Greco e promossa dal Centro di produzione teatrale Casa del Contemporaneo, torna al Teatro Ghirelli di Salerno con la Mostra “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa” a cura di Pino Grimaldi e Enrica D’Aguanno.

Dopo l’opening in Accademia di Belle Arti a Napoli (29/11 – 10/01 scorso) la mostra arriva a Salerno al Ghirelli dove viene presentata il 31 gennaio 2020, alle ore 17,30, con la tavola rotonda a cui sono presenti Giovanni Petrone, Presidente di Casa del Contemporaneo, Enrica D’Aguanno e Pino Grimaldi, curatori della mostra e docenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, Paolo Altieri, designer della comunicazione. Modera gli interventi Maria Rosaria Greco, curatrice della rassegna Femminile palestinese.

“Femminile palestinese” dal 2014 racconta la Palestina, attraverso la sua cultura e la voce delle sue donne, dando spazio a linguaggi artistici e culturali diversi. Negli anni la rassegna ha consolidato preziosi partenariati come in questo caso con l’Accademia di Belle Arti di Napoli, con la quale nasce questo progetto di comunicazione sociale, e con l’AIAP, l’Associazione Italiana Design della Comunicazione Visiva che da il patrocinio all’iniziativa e che esporrà, nella propria sede a Milano, la mostra “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa”, subito dopo Salerno.

19 designer della comunicazione, docenti in università e accademie italiane, sono stati chiamati a una campagna di sensibilizzazione sulla questione palestinese, irrisolta dal 1948. Al di là della narrazione dominante che vede i palestinesi come terroristi e gli israeliani come vittime, non è mai stato presentato un progetto di comunicazione che faccia riflettere l’opinione pubblica, che possa contribuire a superare le ipocrisie della retorica della pace, mettendo a nudo una questione che è, tuttavia, piuttosto semplice. Gli israeliani hanno occupato la Palestina, cacciando i palestinesi e costringendoli a vivere in condizioni di subalternità sociale, morale, culturale, economica. I palestinesi sono prigionieri in casa propria.

I progetti dei 19 designer sono oggetto quindi della mostra e di un catalogo, insieme al convegno di apertura che affronta il tema della comunicazione sociale, della utilità ed efficacia del design per trasferire idee politiche, consapevolezza e impegno sociale.

Alla base dell’iniziativa ci sono alcune domande: un buon progetto di comunicazione, come una serie di poster d’autore, su un tema sociale e politico, può contribuire a cambiare un punto di vista? O almeno a indurre una riflessione su un tema così delicato e dimenticato come la questione palestinese?

La mostra infatti non ha lo scopo semplicemente di esporre una serie di esercizi di stile di alcuni noti designer italiani, quanto quello di sollecitare un pensiero teorico sul rapporto fra design della comunicazione e impegno politico, in particolare sull’efficacia della comunicazione. In altri termini, la comunicazione di utilità sociale può essere anche azione politica, con qualche effetto concreto, come indurre le persone a pensare?

L’obiettivo, come tutti gli appuntamenti della rassegna Femminile palestinese, è quello di accendere i riflettori su un tema dimenticato, di togliere la Palestina dall’isolamento, innanzitutto culturale, in cui è stata collocata e di contrastare la sistematica azione che lo storico israeliano Ilan Pappe definisce di “memoricidio nei confronti del popolo palestinese. Ilan Pappe, tra l’altro, ha voluto inserire una sua presentazione sull’importanza della comunicazione nel catalogo della mostra.

La mostra “Comunicare la Palestina, una narrazione diversa” rimane aperta dal 31 gennaio 2020 fino al 10 marzo 2020, presso il teatro Ghirelli di Salerno.

Un particolare ringraziamento va agli autori che hanno aderito con i propri progetti: Paolo Altieri, Enrica D’Aguanno, Geppy De Liso, Paolo De Robertis, Francesco Dondina, François Fabrizi, Cinzia Ferrara, Marialuisa Firpo, Pino Grimaldi, Gabriella Grizzuti, Gianni Latino, Roberta Manzotti, Armando Milani, Mario Piazza, Daniela Piscitelli, Andrea Rauch, Gianni Sinni, Leonardo Sonnoli, Marco Tortoioli Ricci.

INGRESSO LIBERO
DAL 31 GENNAIO AL 10 MARZO 2020

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La settima edizione della rassegna Femminile palestinese prosegue al Teatro Antonio Ghirelli con altre iniziative.
Il 14 e 15 febbraio sarà organizzata una due giorni dedicata al cinema e al cibo palestinese. “Cinema, hummus e falafel” vede la proiezione di “The fading Valley” di Irit Gal e “Omar” di Marco Mario De Notaris e Luca Taiuti, accompagnati da hummus e falafel.
Il 27 febbraio è previsto un momento dedicato al videoreportage “Donne di Gaza” sulle condizioni femminili di vita nella striscia.
Il 10 marzo il concerto con gli Hartmann che presentano il loro ultimo album “Trotula” che parla di Mediterraneo, donne e migrazione.
La rassegna “Femminile palestinese” con le ultime edizioni si colloca fra le manifestazioni di rilievo a livello nazionale che promuovono la cultura araba e in particolare quella palestinese.
Il progetto è promosso e sostenuto dal Centro di Produzione Teatrale Casa del Contemporaneo, con il partenariato di Accademia di Belle Arti di Napoli, AIAP, Università degli studi di Napoli l’Orientale, Comune di Salerno, Università degli studi di Salerno, Comunità palestinese Campania, Nena News Agency. Il quotidiano Il Manifesto è media partner.

Tempi presenti. Un’intervista con l’antropologa Ruba Salih, ospite domani della rassegna «Femminile Palestinese» curata da Maria Rosaria Greco, su decolonizzazione e libertà accademica. «Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli permette di autoescludersi da essa»

di Chiara Cruciati   il Manifesto

A settant’anni anni dalla Nakba e la fondazione dello Stato di Israele il popolo palestinese vive da rifugiato, apolide e disperso. Dentro la Palestina storica la colonizzazione israeliana prosegue incessante, supera le frontiere ed entra nel linguaggio, la produzione del sapere, la narrativa internazionale.

Il processo di «memoricidio», come l’ha definito lo storico israeliano Ilan Pappe, ha permesso a Israele di radicare nell’immaginario collettivo miti che non hanno riscontro storico, un’idea di Israele che plasma una storia e forgia un linguaggio, quelli del vincitore.

Ne abbiamo discusso con Ruba Salih, antropologa italo-palestinese e docente alla Soas dell’Università di Londra. Con Pappe è stata all’Università di Salerno ieri per discutere di «Decolonizzazione e libertà accademica», evento della rassegna Femminile Palestinese curata da Maria Rosaria Greco.

Cosa significa decolonizzare l’accademia?

Gli effetti del processo coloniale del secolo scorso, la cui espressione attuale è l’occupazione israeliana, rimbalzano nel mondo accademico, non esistendo una produzione del sapere isolata dagli avvenimenti politici esterni. Si vede nei programmi, le politiche delle università, i testi spesso distorti in quanto riproduttori di canoni coloniali. La decolonizzazione si realizza in primo luogo individuando i legami che la produzione del sapere ha con l’apparato economico, militare e politico responsabile dei processi neocoloniali.

In secondo luogo svelando i modi in cui l’università riproduce una politica economica non neutrale ma basata su rapporti di potere: attraverso corporation e investimenti in paesi in cui tali processi sono in atto e attraverso l’ammissione di studenti di una certa classe o etnia, decidendo a priori chi diventerà élite e chi ne sarà escluso. In terzo luogo agendo sulla cultura politica quotidiana, ripensando la performatività dell’insegnamento e le modalità di rapporto con persone che non hanno la stessa tradizione pedagogica o epistemologica.

Infine, decolonizzando il sapere: analizzare come i paradigmi neocoloniali sono riproposti nella letteratura, ancora improntata sul sapere bianco, maschile, di upper class, che rappresenta culture e popoli diversi come soggetti chiusi e statici, oggetti di ricerca estranei alla loro dimensione politica e culturale. Una forma di feticismo.

In Italia sono stati cancellati eventi, anche da università, incentrati sulla Palestina. Lei è stata protagonista di un simile atto di censura. Cosa è successo?

A novembre avevo organizzato un evento con Omar Barghouti all’Università di Cambridge. L’ateneo lo ha cancellato e io sono stata accusata di non essere neutrale. Un attacco gravissimo, che prelude alla messa in discussione della mia capacità di insegnamento, e al mondo accademico in sé perché la censura è giunta nel quadro di Prevent, la legge britannica anti-terrorismo e anti-radicalizzazione. La sua oscura implementazione ha trasformato le università in luoghi di sospetto dove la libertà di espressione si è assottigliata.

E Prevent ha un capitolo dedicato alla questione palestinese, etichettata come area di radicalismo. Professori e studenti si sono mobilitati: sono state raccolte firme e il caso è stato reso pubblico. Cambridge è stata accusata di violazione della libertà di espressione e di insegnamento. E alla fine si è scusata, dicendo di aver ceduto alle pressioni di quelle che ha definito lobby. In Inghilterra sono fortissime, gruppi con la missione di limitare le espressioni di solidarietà con la Palestina.

Intervengono con diverse strategie: l’ambasciatore israeliano fa il giro delle università come ospite; attivisti pro-israeliani intervengono sistematicamente nei dibattiti per ridicolizzare la discussione, accusare di antisemitismo o filmare i presenti, compiendo violenza psicologica. Si difendono parlando di libertà di parola, che però non vale in senso positivo visto che ci impediscono di esercitare la nostra. Promuovono un’idea asettica e neo-liberal della neutralità, che si applica solo ad alcuni ambiti.

In un suo saggio su islamismo e femminismo parla della necessità di superare «l’approccio etnocentrico con cui molta parte del pensiero femminista occidentale ha per lungo tempo guardato ad altre esperienze di emancipazione, soprattutto nel mondo islamico». Siamo fermi alla visione coloniale del secolo scorso, paternalismo e superiorità intellettuale?

Oggi non esiste nemmeno più l’approccio paternalistico verso le donne dei paesi colonizzati, quella missione «civilizzatrice» che il colonizzatore si attribuiva. Si è andati oltre gerarchizzando l’umanità. Con la rinascita di movimenti neofascisti non c’è più bisogno di produrre un discorso legittimizzante: l’altro non esiste in quanto essere umano. Macerata ha palesato l’approccio suprematista che cancella il discorso culturale con cui il colonialismo si legittimava. Scompare anche la «curiosità» che mosse i colonizzatori, una conoscenza mirante al controllo in senso foucaultiano. Oggi l’interesse alla conoscenza non c’è perché una parte di umanità va esclusa ai fini dello sviluppo generale. Su questo ha un ruolo anche l’accademia dove riemergono pericolose riabilitazioni di rappresentazioni coloniali, che nella pratica pesano su studenti di una certa provenienza, sottoposti a draconiane misure di controllo.

Rientra in tale contesto anche il superficiale approccio all’Islam, etichettato come religione di oppressione femminile?

Si è fermi all’idea coloniale della donna come priva di volontà e capacità di decidere per sé. Il discorso è simbolico e politico: sui corpi delle donne si costruisce il senso della nazione e si misurano i suoi confini rispetto alle altre. La questione in Occidente non attiene alla donna in sé, ma alla necessità di giustificare l’enorme violenza che le società occidentali esercitano sulle donne.

Pensiamo alle due giovani uccise in Italia con quasi identiche modalità, Pamela a Macerata e Jessica a Milano: nel primo caso un paese si è mobilitato fino a un attentato terroristico quasi legittimato; sul secondo è calato il silenzio, seppur si tratti di identica violenza esercitata da un uomo. Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli permette di autoescludersi da quella violenza, riproponendo l’idea che il male sia altrove.

Domani, a Salerno, prenderà parte alla rassegna «Femminile palestinese», che racconta la Palestina attraverso le voci delle donne…

Il movimento delle donne in Palestina è vecchio di cento anni, inserito in una società tradizionale dove coestistono movimenti femministi, religiosi, comitati popolari, dove la resistenza è quotidiana. In Palestina dove c’è politica ci sono le donne, come ci sono nella produzione culturale e artistica di cui spesso hanno influenzato se non modificato la narrativa (penso a scrittrici come Sahar Khalifeh o poetesse come Fadwa Tuqan). Eppure per lungo tempo l’occupazione israeliana ha guardato alle donne palestinesi come soggetti fragili e quindi oggetto di minore violenza diretta. Non per umanità ma per una struttura mentale coloniale che guarda alla società palestinese come retrograda e patriarcale.

Oggi il cambiamento è dirompente: se nella Prima Intifada c’è stata una sospensione dei ruoli di genere, perché le donne partecipavano alle diverse forme di disobbedienza civile e alla costruzione della società esattamente come gli uomini, oggi le donne – lo dimostra Ahed Tamimi – hanno ripreso un ruolo su tutti i livelli, anche quello fisico, ponendo i loro corpi contro l’occupazione. È una presenza che parla agli uomini palestinesi ma anche all’occupazione, un doppio processo di de-mascolinizzazione.

Da giorni le università britanniche sono in sciopero. Quali le ragioni?

È il più grande sciopero della storia accademica britannica contro il progetto di far dipendere le pensioni dall’andamento del mercato: si profila un dimezzamento della pensione. Ciò significa che chi non viene da famiglie benestanti sarà escluso dal mondo accademico. È un attacco generalizzato alla cultura, giustificato con la bugia del deficit. Ma se gli studenti pagano in media 9mila sterline l’anno, gli atenei licenziano, ristrutturano e non reinvestono in borse di studio o programmi educativi. Al contrario raddoppiano gli stipendi dei manager e investono nel settore immobiliare. Nulla di nuovo nel panorama del neoliberismo. Di nuovo c’è il mix tra delegittimazione degli accademici e guerra dei ricchi ai poveri.

Domani incontro a Salerno insieme a Ilan Pappe

«Palestina, decolonizzazione e libertà accademica»: è il titolo dell’incontro domani 2 marzo alle 10.30 nell’aula Vittorio Foa del dipartimento Dspsc dell’Università di Salerno. Organizzato dalla rassegna «Femminile Palestinese», curata da Maria Rosaria Greco e da Casa del Contemporaneo, vedrà l’intervento dello storico israeliano Ilan Pappe e dell’antropologa italo-palestinese Ruba Salih, che discuteranno del tema con Giso Amendola e Gennaro Avallone.

A intrecciarsi sono i temi dirimenti della decolonizzazione dentro e fuori l’accademia, sfida alla narrazione israeliana che si è imposta nel discorso occidentale sulla questione palestinese. L’incontro si inserisce all’interno di una rassegna, alla quinta edizione, focalizzata sull’analisi dello scenario contemporaneo in Palestina attraverso voci e storie di donne, giornaliste, registe, cuoche, artiste.

All’evento di venerdì seguiranno l’incontro con la scrittrice palestinese Adania Shibli e la rassegna cinematografica e gastronomica «Cinema, hummus e falafel». In questi giorni è inoltre in uscita la seconda edizione del libro «Di storia in storia. From tale to tale», ora bilingue, pubblicato da Oèdipus Edizioni a cura di Maria Rosaria Greco: la trascrizione integrale della lectio magistralis che Ilan Pappe tenne a Salerno sulla pulizia etnica della Palestina e sull’importanza del linguaggio e del ruolo dell’accademico. Il libro vuole essere il primo di una serie di «quaderni della rassegna» che ne permettano una documentazione puntuale.

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