Roma, 22 ottobre 2019, Nena News – “Inciampo, non appena cammino lentamente” è l’unica raccolta di poesie di Jumana Mustafa, tradotta in italiano fino ad oggi. Poetessa e giornalista, nata nel Kuwait da una famiglia palestinese nel 1977, oggi vive in Giordania.

I suoi versi mi hanno condotto delicatamente, dondolandomi, in un viaggio lieve diretto verso il profondo, in un percorso fatto di immagini surreali eppure così radicato nel vissuto quotidiano. Mi hanno attratto le assonanze delle sue parole che rimangono sempre leggere, in alcuni momenti ironiche, in altri pungenti, in altri ancora meravigliosamente irriverenti.

Come scrive Aldo Nicosia nella prefazione del libro, “l’autrice è stregata dalla magia delle assonanze e degli accostamenti inconsueti delle parole che creano immagini intense e dense. Così dense da poter esser scolpite. La sua penna a volte si trasforma in scalpello che estrae, dalla materia informe dell’immenso dizionario arabo classico…”

Inciampo / non appena cammino lentamente / proprio come accade a tutte quelle donne / ritrovate / nei giacigli della delusione / i capelli rasati / le vene recise /

Non fermarti presso chi rassomiglia al tuo sogno / non seguire le frecce che conducono alla verità / la verità si trova dall’altra parte…

Perché. Sono prorompenti i perché che le parole dell’autrice fanno emergere. Cosa genera più dolore per Jumana, inciampare? O camminare lentamente? In che modo la poesia interviene in questi giacigli della delusione in cui si “ritrovano” donne dai capelli rasati e le vene recise? È dunque la velocità una salvezza? O forse un inganno? E da cosa ci salverebbe, dal non inciampare? O forse da noi stesse, dalle nostre paure, dai nostri pensieri più intimi?

Oppure ancora la velocità ci salverebbe omologandoci ai ritmi frenetici di un sistema nel quale annientarci, ci salverebbe da un mondo esterno che ci chiede di annullare il nostro diritto alla lentezza, il nostro diritto di camminare in un percorso intimamente nostro?

Eppure è fondamentale il diritto di tutte noi di “inciampare” e di “camminare lentamente”. Ogni donna dovrebbe muoversi secondo ritmi propri, ritmi femminili più dilatati, dettati per esempio dai tempi della riproduzione e non secondo frenetici ritmi maschili dettati dai tempi della produzione. La giornalista Anna Del Bo Boffino negli anni ’80 spiegava che i ritmi della riproduzione, propri della sfera femminile, hanno dovuto adeguarsi e rimanere costretti dentro ai ritmi della produzione, propri della sfera maschile.

Ovviamente non può esserci alcuna produzione senza riproduzione, ma questo è un altro discorso. Oggi i versi di Jumana mi hanno riportato al diritto di “camminare lentamente” anche se ci fa inciampare in noi stesse e nelle nostre paure.

È una poesia profondamente libera quella di Jumana Mustafa. Anche nella forma. Nessun titolo per le sue qasida, nessun ordine precostituito è autorizzato a imprigionare i suoi versi che spaziano liberi, liberi dall’essere vincolati ad un unico significato, liberi di immergersi nel più profondo dell’animo umano e soprattutto nell’immenso animo femminile, liberi di essere scanzonati e di sbeffeggiare con leggerezza il sistema partendo dal proprio intimo, liberi di infilarsi in linguaggi assolutamente indipendenti e diversi da quelli propri dell’ortodossia femminista o delle battaglie di autodeterminazione dei popoli arabi.

Di nuovo Aldo Nicosia, nella sua prefazione, ci ricorda che “Jumana definisce la sua poesia di un “coraggio tranquillo”, mai rumoroso, mai ribelle. I suoi versi vedono lontano, ma non hanno orecchie da prestare ai vacui gemiti del mondo”.

Come non rimanere incantate dalla poesia di Jumana Mustafa e dalla sonorità dei suoi versi in arabo? La incontriamo a Salerno il 24 ottobre, ospite della rassegna Femminile palestinese, che curo dal 2014 con la promozione del Centro di Produzione teatrale Casa del Contemporaneo. Insieme a lei Omar Suleiman che ha curato la pubblicazione della sua raccolta a Napoli nel 2011 (libreria Dante Descartes), con la traduzione di Bianca Carlino.

Come nella tradizione di Jumana Mustafa, che ama coniugare il teatro alla poesia, ho voluto organizzare l’incontro presso il teatro Ghirelli di Salerno con una presenza musicale. Con noi infatti il gruppo Hartmann Quartett: Daniele Apicella – tamburi a cornice e percussioni. Renata Frana- dilruba. Gabriele Pagliano – contrabbasso, viella. Carlo Roselli – citola, oud, robab, voce.

Nessun confine, quindi, fra le varie discipline artistiche che si fondono in un unico e denso incontro con Jumana Mustafa. Vi aspetto e vi saluto con i suoi versi:

Cadere una sola volta / basta per rendere zoppa la vita /

Avere un solo cuore / basta per amarti, vita zoppa.

* curatrice della rassegna Femminile palestinese

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BIOGRAFIA

Jumana Mustafa, nasce nel Kuwait nel 1977 da una famiglia palestinese, vive in Giordania dove ottiene la cittadinanza nel 2004. Lavora come corrispondente per diversi quotidiani, tra i quali il giordano Al Ghad nella sezione culturale.

Nel 2008 entra nella compagnia teatrale Al Fauanees con cui istituisce il Festival Poesia in teatro, che si svolge annualmente. Si dedica alla poesia sin dall’infanzia e pubblica tre raccolte “Estasi Selvaggia” Dar al-Farabi, 2007, “Dieci donne”, Arab Institute for Research and Publiscing, 2009, “Una bellezza defunta vincerà la scommessa” Dar al-Farabi, 2011.

Partecipa a diversi festival internazionali di poesia e teatro in Italia, Siria, Tunisia, Algeria oltre che a numerose serate poetiche a Damasco, Amman e Beirut. Attualmente lavora presso la UNDIP di Amman come responsabile del settore comunicazione e informazione.

La traduttrice Bianca Carlino (Palermo 1984) ha studiato la lingua araba nelle università di Tunisi, Palermo e Napoli . Ha tradotto in italiano alcune opere di Maram al-Masri.

 

 

 

 

 

Unica donna di Gaza a svolgere questo lavoro, Madleen pesca da quando era una ragazzina. Il fratello Kayed fu ucciso l’anno scorso dai soldati israeliani mentre manifestava alla “Grande Marcia del ritorno”

Madleen Kulab, foto di Maria Rosaria Greco

 

di Maria Rosaria Greco*

Gaza, 12 settembre 2019, Nena News – “Mi chiamo Madlleen Kulab, ho 25 anni, sono sposata da un anno e tre mesi, faccio la pescatrice, ma per il momento sono ferma perché sono incinta.” Inizia così la mia intervista a Madleen, la donna pescatrice di Gaza che mi racconta la sua storia, mentre mi guarda con lo sguardo fermo e tenace, occhi neri, risposte secche senza incertezze. Sono a casa sua, fra mura di colore rosa dall’intonaco scrostrato, una casa poverissima dove però l’accoglienza è sacra, come in tutte le case palestinesi.

“Avevo 13 anni quando ho incominciato questo lavoro, il mare da sempre fa parte della mia vita. Mio padre mi portava con lui a pescare fin da piccola, mi piaceva e poi ho iniziato ad aiutarlo, fino al momento in cui lui si è ammalato. Così ho preso il suo posto sul peschereccio, io ero la più grande dei miei fratelli, potevo farlo solo io.” Di lei hanno parlato in molti, per l’audacia di una scelta difficile. Scriveva di lei nel 2010 Vittorio Arrigoni, quando Madleen aveva 16 anni. “Ogni mattina verso le 6, un’ora prima di recarsi a scuola, spinge a remi di poco al largo la sua minuscola imbarcazione e lancia le reti. Un rituale che si ripete quotidianamente anche al pomeriggio, poco dopo la fine delle lezioni.”

Ispirato alla storia di Madleen, nel 2013, esce il libro per ragazzi della scrittrice giordana Taghreed al Najjar “Sitt al-Koll”, pubblicato dalla casa editrice Salwa e illustrato dalla disegnatrice siriana Gulnar Hajo. Il racconto della giovane protagonista Yousra, che diventa la prima donna pescatrice di Gaza sfidando ogni convenzione, viene tradotto in italiano da Leila Mattar e nel 2018 l’editore Giunti pubblica Contro corrente. Storia di una ragazza “che vale 100 figli maschi”.

Nel 2017 invece esce il video prodotto da Al Jazeera: “Fish out of water: Gaza’s first fisherwoman l Al Jazeera World” in cui Madleen racconta la sua storia. Insieme a lei vengono intervistati il padre, la madre e gli amici pescatori.

Oggi il suo nome è conosciuto anche fuori dalla striscia di Gaza, ma, soprattutto all’inizio, non è stato facile per lei. “Ovviamente la mia è stata una scelta difficile, questo lavoro è difficile, e anche molto pericoloso. All’inizio ho dovuto dimostrare di essere all’altezza per guadagnarmi il rispetto degli altri, soprattutto di chi non mi conosceva fin da piccola. Parlo dei pescatori più giovani e della polizia che non accettavano che una donna potesse fare questo lavoro.”

La comunità dei pescatori a Gaza è tradizionalmente maschile e qui sfidare alcune convenzioni culturali non è facile, a partire dall’abbigliamento che le donne devono indossare. Madleen, durante la pesca porta sempre il velo e i vestiti ingombranti che vanno tenuti anche per nuotare, quando si immerge nell’acqua, per esempio, per controllare le reti e l’eventuale pescato. “Nonostante la scomodità dei vestiti, l’acqua è il mio elemento naturale, quando sono nel mare riesco a sentirmi completamente libera. Ma è anche il momento in cui ho paura. I pescatori fanno un lavoro molto duro e pericoloso, non solo per i ritmi faticosi scanditi dal mare. Quello di cui ho paura, e che incombe su tutti i pescatori di Gaza, è la violenta e sistematica oppressione israeliana, che impone l’assedio sulle nostre vite e sul nostro mare.”

I pescatori possono gettare le reti solo in un’area compresa tra le 3 e le 6 miglia nautiche quando l’area di pesca stabilita dagli accordi di Oslo era stata fissata a 20 miglia. Prima dell’embargo, qui a Gaza, la pesca era una delle principali attività, ma nei lunghissimi anni di assedio proprio la comunità dei pescatori è diventata fra le più povere. I circa 4000 pescatori che oggi rimangono attivi per lo più vivono sotto la soglia della povertà.  I pesci migliori si trovano intorno alle 12 miglia, vicino alla costa si pesca poco, pochi chili e per lo più sardine, gamberetti, triglie e granchi. Tra l’altro viene anche negata a tutta la popolazione una importante fonte di alimenti.

“Appena un nostro peschereccio prova ad avvicinarsi alle 5 miglia marine le motovedette militari israeliane piombano e iniziano a sparare, sequestrano la barca e le reti. Oppure lanciano getti di acqua bollente che ustionano, o ancora lanciano getti di liquido dall’odore putrido che non ti lascia per giorni. Spesso arrivano e iniziano a girare vorticosamente intorno alle nostre barchette malandate, fino a farle affondare o a spezzarle. Le loro navi da guerra sono veloci ed enormi in confronto ai nostri pescherecci, a cui tra l’altro non possiamo fare manutenzione perché l’assedio israeliano non ci permette di importare le materie prime necessarie”

Secondo Madleen inoltre “Israele restringe ed estende la zona di pesca spesso come misura punitiva, una specie di guerra economica dichiarata alla striscia e in particolare ai pescatori, provocando un profondo senso di insicurezza. È una punizione collettiva illegale che nulla ha a che fare con la sicurezza. Infatti spesso le misure più restrittive vengono imposte nel periodo migliore di pesca.”

Tre anni fa anche la sua barca viene confiscata da Israele, con tutta l’attrezzatura, lasciando Madleen completamente disoccupata e senza alcuna fonte di sostentamento. “È stato terribile per me e la mia famiglia, ho sentito di perdere ogni speranza, ancora oggi non so se riuscirò mai a riavere la barca. Poi mi sono inventata una nuova idea imprenditoriale nel tentativo di ripartire. Con grandi sacrifici sono riuscita a ottenere un prestito dalla Bank of Palestine per comprare una barca da destinare a giri turistici per donne e famiglie. Speravo in questo progetto per avere una minima stabilità economica e all’inizio non andava male. Ora non so, ormai la gente è sempre più povera, costretta a vivere alla giornata. La povertà purtroppo qui a Gaza colpisce tutti ed è soffocante.”

Ma Madleen è incinta e non può permettersi di guardare al futuro senza speranza, soprattutto dopo aver vissuto un’altra sofferenza atroce per la perdita del fratello Kayed, un anno più piccolo di lei, ucciso dai cecchini dell’esercito israeliano mentre manifestava pacificamente alla “Marcia del ritorno”.

“Oggi aspetto una bambina e ho un sogno, vorrei potesse nascere in una terra libera, vorrei che non dovesse subire l’assedio illegale israeliano che ci toglie tutto, la vita, il lavoro, la dignità, il futuro e i sogni. Anni fa ero stata scelta per rappresentare la Palestina ai campionati di nuoto in Sud Africa. Mi è sempre piaciuto molto nuotare, ma il blocco di Gaza non mi ha permesso di uscire dalla striscia, di viaggiare e quindi di partecipare alla gara. I miei sogni sono stati calpestati come vengono quotidianamente calpestate le nostre vite qui, sotto l’occupazione israeliana. Israele non potrà continuare in eterno a violare i nostri diritti umani e civili e prima o poi verrà giudicato. Mi auguro che la Comunità internazionale intervenga al più presto.

 Io sono una pescatrice, chiedo solo di vivere a Gaza e di lavorare con dignità, di pescare nel nostro mare senza limiti, di vedere i nostri figli crescere sereni, senza il timore di essere bombardati, perché possano giocare, studiare, andare a scuola come tutti i bambini del mondo.” Nena News

*Curatrice della rassegna “Femminile palestinese”

Palestina. Intervista allo storico israeliano Ilan Pappe, ospite della rassegna Femminile Palestinese: «L’accademia riproduce il discorso sionista»

Giovani palestinesi manifestano contro l’occupazione israeliana sul muro che corre nel villaggio di Bilin, in Cisgiordania © Ap

Chiara Cruciati
SALERNO

«Parlare di Palestina non è mero esercizio di libertà di espressione. È una forma di lotta per la liberazione del popolo palestinese dal colonialismo di insediamento israeliano. Se ne parli non solo in nome della libertà accademica, ma come dovere di fronte alla catastrofe di un popolo».

Lo storico israeliano Ilan Pappe, autore di fondamentali ricerche storiche sul progetto sionista e i suoi effetti sul popolo palestinese, ha di fronte una platea nutrita e particolare: gli studenti dell’Università di Salerno, richiamati da un evento importante. Insieme all’antropologa palestinese Ruba Salih e ai professori Gennaro Avallone e Giso Amendola, la rassegna «Femminile Palestinese» curata da Maria Rosaria Greco ha portato nel campus un tema centrale, decolonizzazione e libertà accademica, affrontato dagli ospiti in chiavi tra loro connesse, dalla privatizzazione dell’accademia al rapporto con lo spazio urbano fino ai legami di potere e visione neocoloniale tra atenei ed élite economiche neoliberiste.

«Il discorso sionista è fondato su basi fragili: la realtà non coincide con la narrazione – spiega Ilan Pappe – Per questo il mondo accademico israeliano si è mobilitato: si dovevano rafforzare quelle basi. Identificare i materiali con cui la narrazione sionista è stata costruita non è solo un esercizio intellettuale, perché quel discorso ha un impatto sulla vita di un popolo. Il primo materiale utilizzato è l’assorbimento della Palestina all’interno della storia dell’Europa. Dalla dichiarazione Balfour, passando per il piano di partizione dell’Onu del 1947 fino alla dichiarazione di Trump su Gerusalemme, l’Europa e l’Occidente percepiscono la Palestina come un affare interno. E questa falsa rappresentazione è stata traslata su Israele. In tale visione i palestinesi, in quanto arabi e musulmani, sono visti come migranti e non come nativi».

«Il secondo materiale è la natura del progetto coloniale sionista: un colonialismo di insediamento del tutto simile a quello perpetrato in Nord America, Australia e Sudafrica. La presenza di popoli indigeni che non corrispondevano alla popolazione desiderata dai coloni europei si è tradotta in genocidio nei primi due casi, in apartheid in Sudafrica e in pulizia etnica in Palestina. L’idea che gli indigeni siano gli invasori sta alla base di questo tipo di colonialismo ed è riprodotta dall’accademia che narra la storia della Palestina in questi termini. E quella israeliana si spinge oltre quando discute di questione demografica, legittimando le politiche di riduzione del numero di palestinesi sul territorio. In atto c’è lo stesso processo di disumanizzazione che il neoliberismo applica ai lavoratori».

Dei legami tra Occidente e Israele abbiamo discusso con lo storico israeliano a margine dell’incontro di Salerno.

Il 6 dicembre il presidente Usa Trump ha riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele. Un atto meramente simbolico, che non modifica lo status della Città Santa, o un atto con effetti concreti?
Non è simbolismo. L’importanza di tale dichiarazione sta nel messaggio inviato alle Nazioni Unite e al mondo: il diritto internazionale, nel caso di Israele e Palestina, non conta più. Lo status di Gerusalemme è protetto dal diritto internazionale e per questo nemmeno gli Stati uniti avevano mai trasferito l’ambasciata a Gerusalemme. È vero che il diritto internazionale non è stato mai rispettato da Israele, ma la comunità internazionale ha sempre sperato che quella legge avesse un significato. La dichiarazione di Trump ha un effetto concreto: se il diritto internazionale non ha valore a Gerusalemme, allora non ha valore nemmeno nel resto della Palestina. Qui sta il cuore del riconoscimento: costringere a un cambio di marcia e di riferimenti politici e dire a chi ha sempre creduto nel diritto internazionale, nella soluzione a due Stati, nel processo di pace che tutti questi strumenti non saranno d’aiuto nella lotta contro il colonialismo di Israele. Si deve dunque pensare a un approccio diverso, simile a quello che venne adottato contro il Sudafrica dell’apartheid.

Israele è assunto come modello securitario, sia nel sistema di controllo che nella logica della separazione tra un «noi» e un «loro», che nella fortezza-Europa si traduce nella chiusura ai rifugiati.

La cosiddetta guerra al terrorismo ha aiutato moltissimo Israele. A Francia, Belgio, Stati uniti e così via, Israele ha dato consigli e sostegno sul modo di gestione della comunità musulmana e su come sovvertire o aggirare il sistema legale per affrontare la cosiddetta minaccia islamica. È diventato il guru globale della lotta al cosiddetto pericolo islamico. È scioccante perché la competenza israeliana deriva dalla lotta a un movimento di liberazione nazionale e non al terrorismo. Eppure questo ruolo è fondamentale per Israele perché crea l’equazione lotta di liberazione uguale terrorismo. È nostro compito smentire questa falsa equazione.

Da cosa deriva l’impunità di cui gode Israele per le violazioni contro il popolo palestinese? È l’effetto dell’auto-assoluzione del colonialismo europeo, che ha preso parte alla nascita di Israele, o il sionismo è ormai sfuggito al controllo occidentale?

In Europa l’impunità di Israele ha a che fare con l’Olocausto e con la questione ebraica che non è stata mai realmente affrontata. L’antisemitismo europeo non è mai stato sviscerato. Per cui per certe generazioni europee Israele è uscito dai radar, un capitolo nero da risolvere lasciandolo fare. A questo vanno aggiunti oggi l’islamofobia, l’eredità coloniale, il neoliberismo che ha un’alleanza strategica con Israele. Per gli Stati uniti è diverso: qui l’impunità è figlia del potere delle lobby ebraiche, cristiano-sioniste e ovviamente di quello dell’industria militare. Penso che l’eredità coloniale sia solo una delle cause di questa immunità. Quello che sarà interessante vedere è se le future generazioni occidentali si porteranno ancora dietro il senso di colpa europeo per l’Olocausto e se gestiranno la questione Israele allo stesso modo.

Quanto si è modificata nel tempo la società israeliana? Oggi siamo di fronte ad un popolo sempre più spostato a destra, come la leadership.

Era inevitabile che la società israeliana si spostasse a destra. La possibilità che un colonialismo di insediamento potesse essere anche democratico o socialista era nulla. Il vero Israele si sta mostrando oggi. È un inevitabile processo storico, sebbene Israele provi a giocare la carta della democrazia. Passerà del tempo prima che la società israeliana cambi o si trasformi. Anche se il primo ministro Netanyahu sarà cacciato a causa degli scandali corruzione che affronta oggi, la natura del regime non cambierà.

di Maria Rosaria Greco*

Roma, 16 ottobre 2018 – È il momento della letteratura per la rassegna Femminile palestinese che ospita Adania Shibli, scrittrice considerata fra le voci più significative della letteratura contemporanea dei territori occupati. Nata nel 1974 nell’alta Galilea, in un villaggio interno al confine israeliano, oggi vive tra Berlino, Ramallah e Gerusalemme. Vincitrice di numerosi premi, attira l’attenzione di scrittori e critici palestinesi, tra cui Mahmud Darwish che la invita a pubblicare i suoi racconti sulla rivista al-karmil, da lui fondata a Beirut nel 1981, e ripubblicata a Ramallah dal 1996. Oltre all’attività di scrittrice, ha compiuto studi in comunicazione, giornalismo e regia cinematografica, lavora nel campo delle arti visive e collabora con importanti istituzioni culturali palestinesi come al-Hakawati Theater di Gerusalemme e il Sakakini Cultural Centre di Ramallah.

Adania Shibli, come altri scrittori della sua età, non ha vissuto personalmente la Nakba. Fa parte di una generazione che invece ha visto la prima e la seconda intifada, toccando da vicino i fallimenti degli accordi di Oslo, con il conseguente aumento di check point e la costruzione del muro. La sua produzione letteraria quindi prende ispirazione da un vissuto scandito dal quotidiano, in particolare dal quotidiano non esistere dei palestinesi: umiliazione, distruzione, morte, violazione di ogni diritto umano e civile, come la totale assenza di libertà. In uno dei suoi racconti spiega quanto la libertà esista solo nell’immaginario e sia lontana e irraggiungibile come le nuvole: “Ma le nuvole continuano a muoversi, una dietro l’altra, senza fine, e senza calore. Non importa quanto questo sentimento sembri innocente, ma arriva sempre il giorno in cui invidiamo il movimento leggero delle nuvole in cielo, e la libertà degli uccelli nello spostarsi da un luogo all’altro.” (Pallidi segni di quiete, a cura di M. Ruocco – Argo ed., 2014).

Crescere in Palestina vuol dire essere sottoposti al tentativo di Israele di far scomparire i palestinesi”, racconta in un’intervista la Shibli, che oppone a questo l’affermazione di una identità culturale, a iniziare dalla lingua. Sebbene conosca perfettamente l’inglese e l’ebraico, Adania scrive in arabo dedicando una particolare attenzione all’aspetto linguistico, con una potenza narrativa essenziale e eidetica, spesso fatta di immagini. Con lei si delinea un nuovo modo, molto interessante, di fare letteratura. La descrizione dei piccoli gesti della vita quotidiana permette di entrare in punta di piedi, con leggerezza, in una intimità quasi sospesa, violata dal dolore profondo. Un dolore che Adania cerca di sedare, focalizzando l’attenzione sulle piccole cose di tutti i giorni, come se non esistesse la lacerazione della sofferenza, troppo assurda da accettare. Una sorta di indifferenza emotiva, come scrive Monica Ruocco nella sua introduzione al romanzo “Sensi” (Masàs) premiato nel 2001 dalla A. M. Qattan Foundation di Londra come migliore opera prima, da lei tradotto nel 2007 con Argo: “una indifferenza emotiva che per migliaia di individui è l’unico modo di difendersi dall’orrore”. Come cerca di difendersi dal dramma la ragazzina, protagonista del romanzo, che, durante il funerale del fratello, è preoccupata per tutto il tempo di coprire con la mano un buco sul ginocchio sinistro dei suoi pantaloni di velluto blu.

In italiano sono tradotti, oltre al romanzo Sensi (trad. di Monica Ruocco, Argo ed., 2007), anche la raccolta di racconti Pallidi segni di quiete (a cura di M. Ruocco – Argo ed., 2014), e pubblicazioni uscite su varie riviste letterarie. Le sue opere sono tradotte anche in inglese, francese, ebraico.

Adania Shibli è a Napoli, ospite della rassegna Femminile palestinese il 23 ottobre 2018, alle 16,30 presso la sala conferenze di Palazzo Du Mesnil, (via Chiatamone 61) con lei dialoga Monica Ruocco, docente di lingua e letteratura araba dell’Università degli studi di Napoli “l’Orientale” – dipartimento di Asia, Africa e Mediterraneo. Inoltre il giorno dopo, il 24 ottobre, alle 18,00, presso la libreria Tamu (via Santa Chiara 10), la Shibli incontra la scrittrice Selma Dabbagh, in un confronto letterario, moderato da Monica Ruocco. 
La Dabbagh è autrice di Fuori da Gaza, (trad di B. Benini – Il Sirente ed., 2017), suo primo e acclamato romanzo, “Gardian Book of the year” nel 2012 e tradotto anche in francese e arabo. Nata a Dundee, in Scozia nel 1970, è una scrittrice britannica, di madre inglese e padre palestinese originario di Jaffa. Ha vissuto in Arabia Saudita, Kuwait, Francia e Bahrein e ha lavorato come avvocato per i diritti umani a Gerusalemme, Il Cairo e Londra.

La rassegna, quest’anno alla quinta edizione, è promossa e sostenuta dal Centro di Produzione Teatrale Casa del Contemporaneo, in partenariato con Regione Campania, Università degli studi di Napoli l’Orientale, Accademia di Belle Arti di Napoli, Università degli studi di Salerno, Comune di Salerno, Fondazione Salerno Contemporanea, Comunità palestinese Campania, Nena News Agency. La programmazione prosegue nel 2019, qui di seguito alcuni degli appuntamenti:

Comunicare la Palestina: una narrazione diversa, in collaborazione con il Corso di Design della Comunicazione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, il progetto coinvolge 15 designer della comunicazione italiani per la creazione di poster con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso una narrazione diversa da quella dominante. I vari lavori saranno oggetto di una mostra, di un catalogo e di una tavola rotonda sul tema della comunicazione sociale e sull’importanza di coniugare l’arte all’impegno politico e sociale.

Per la prima volta in Italia, il concerto con la band siriano-palestinese Hawa Dafipresso il teatro Ghirelli di Salerno. Dalle Alture del Golan, il gruppo ha sviluppato un’identità musicale unica fondendo strumentazione araba, jazz, rock energico, reggae e musica gitana. È previsto poi un incontro con gli studenti del corso di laurea di letteratura araba in Università Orientale a Napoli e infine una jam-session a Napoli.

Invece “Cinema, hummus e falafel” è il momento dedicato al cinema e al cibo palestinese: Fra cielo e terra” di Sahera Dirbas, “Farid” di Ashraf Shakah, “The fading Valley” di Irit Gal saranno proiettati presso il teatro Ghirelli di Salerno accompagnati da hummus e falafel.

E poi reading (Voci di scrittori arabi di ieri e di oggi curato da Isabella Camera D’Afflitto, Bompiani – 2017), presentazioni di libri (di Chiara Cruciati e Michele Giorgio, Israele, mito e realtà – ed. Alegre, 2018) e spettacoli teatrali completeranno la programmazione. 

* ideatrice e curatrice della Rassegna Femminile Palestinese

 
pubblicato su Nena-news
http://nena-news.it/femminile-palestinese-la-scrittrice-adania-shibli-a-napoli/

Intervista con la scrittrice palestinese Adania Shibli ospite a Napoli di «Femminile palestinese». Nata in un villaggio dell’alta Galilea, dell’autrice sono stati tradotti «Sensi» e «Pallidi segni di quiete». Vincitrice del premio della fondazione A. M. Qattan, la sua scrittura dialoga con una dura storia collettiva
di Roberto Prinzi

Raccontare il dolore, l’estraniamento, l’umiliazione quotidiana causate dall’occupazione israeliana della sua terra, la Palestina, soffermandosi su piccoli dettagli che, messi insieme, arrivano a indagare i sentimenti più nascosti dell’animo umano. È questa la cifra stilistica della scrittrice Adania Shibli, nata nel 1974 in un villaggio dell’alta Galilea e vincitrice tre volte del premio della fondazione A. M. Qattan.

Dell’autrice palestinese sono stati tradotti in italiano due libri: Sensi (nel 2007) e Pallidi segni di quiete (nel 2014) pubblicati entrambi da Argo. È stata ospite a Napoli ieri e l’altro ieri della quinta edizione della rassegna Femminile palestinese curata da Maria Rosaria Greco.

Lei scrive che i «palestinesi sono come dei detective alla ricerca della tracce di una vita scomparsa». Dove è il confine in Palestina tra visibile e invisibile?
Per me la questione è più chi decide i confini tra visibile e invisibile. Come primo passo del processo di oppressione, le autorità israeliane lavorano costantemente per cancellare la Palestina. Ciò avviene a molti livelli: dall’architettura dei paesaggi all’archeologia, dalla costruzione di strade per coloni alla distruzione e allo sradicamento di case e alberi. L’esistenza palestinese è poi spesso resa invisibile anche quando li si rende visibili soltanto in una situazione specifica: quando reagiscono alla violenza coloniale con mezzi violenti. E in questo anche i media ne sono responsabili.
Altro aspetto da sottolineare è la riduzione a silenzio delle voci palestinesi. Per le autorità israeliane la lingua araba è diventata uno strumento che identifica i palestinesi e, pertanto, va soppressa. La recente legge sulla nazionalità degrada l’arabo da lingua ufficiale a «lingua a status speciale» e ha come obiettivo quello di rendere il linguaggio invisibile. L’odio e la discriminazione verso i palestinesi inizia a un livello sonoro, non solo a quello visivo: ascoltarli, sentire la loro narrativa è insostenibile perché è una minaccia. Perciò la loro lingua (l’arabo) deve essere silenziata oltre che sabotata.

Nei suoi libri lei descrive il dolore, la solitudine, l’estraniamento causati dall’occupazione israeliana. Eppure, non c’è spazio per la resa e la disperazione perché si resiste cogliendo piccoli dettagli della vita: gli occhi verdi del vicino, il vento dei campi…
Non limiterei le cause del dolore, della solitudine e dell’estraniamento alla colonizzazione e occupazione israeliane perché queste sono caratteristiche umane. È vero che Israele riveste a riguardo un ruolo di primo piano, ma è più interessante osservare come gli esseri umani in generale coniugano questi sentimenti e si possano nascondere o scusare per quello che fanno grazie a loro. I dettagli di vita presenti nei miei testi possono essere sia di dolore che di solitudine, ma anche domini dove si può resistere. Se noti il vento nei campi perché sei solo, è pur vero che questa situazione ti rivela un aspetto della vita che è un momento fugace e prezioso che ti permette di resistere, di rimanere resiliente di fronte alla solitudine o al dolore.

Contro l’assurdità dell’occupazione, lei sembra suggerire – attraverso la sua scrittura – due forme di resistenza: la ricerca della bellezza e una sorta di autismo («tawwahud») emotivo. I fallimenti di decenni di lotta nazionale le hanno fatto perdere la fiducia nella storia collettiva?
L’occupazione non è affatto assurda: è pensata e misurata con modalità che causano ai palestinesi emozioni assurde e conflittuali, ponendoli ai margini della loro umanità. In una situazione simile, l’atto di scrivere può servire, ma non si materializza in una deliberata opposizione tra esperienze individuali e collettive. Scrivere, e probabilmente parlare e sentire, sono spesso i domini in cui un individuo crea una zona dove si protende verso gli altri abbandonando la propria individualità. La mia scrittura tenta probabilmente di contemplare lo spazio creato da queste esperienze singolari e cosa queste creano nella collettività. Non parlerei, tuttavia, di fallimenti politici palestinesi quando parliamo di storia collettiva. I palestinesi non possono essere colpevolizzati per i fallimenti a cui sono stati soggetti, ma sono responsabili quando cadono nelle trappole che Israele pone. I checkpoint, costruiti per insultarci, umiliarci e cancellarci come esseri umani, causano rabbia e vendetta, ma se si reagisce così, si adotta la posizione che l’occupazione israeliana ha concepito per noi. È qui il fallimento.

Nonostante la centralità della Palestina, lei ha detto che i suoi lavori sono «senza spazio e dislocati». Vuole rappresentare una condizione di sradicamento dell’umanità più generale?
In realtà non voglio rappresentare nulla perché farlo vuol dire assumere una posizione di potere. A me piace guardare, contemplare e riflettere. Se parte del mio lavoro è «senza spazio e dislocato», lo è puramente perché è il risultato di una contemplazione su come qualcuno possa esserlo.

La sua scrittura evoca costantemente immagini. Quanto la sua prosa, a tratti lirica, prende in prestito dalla grande tradizione poetica palestinese e dalle arti visive?
Forse la mia scrittura evoca immagini perché guardo e contemplo. La mia curiosità e i miei molteplici interessi formano il mio modo di scrivere. Non classifico però le influenze in base a categorie nazionalistiche. La lingua araba si materializza non solo per le cose che sono state scritte dai palestinesi, ma anche attraverso le traduzioni che sono state fatte in arabo. Tradurre in arabo ad esempio Wislawa Szymborska apre la mia lingua a nuove sensibilità e fa rientrare il suo lavoro nella grande tradizione poetica in arabo.

Contrariamente a quanto ha fatto lei, alcuni autori palestinesi d’Israele pubblicano anche (o solo) in ebraico. Come giudica la loro scelta?
La definizione «palestinesi d’Israele» è un’invenzione degli israeliani. Mi mette in una categoria che non ho scelto e in cui non consento di essere messa. Tutte queste divisioni [terminologiche] sono frutto della loro opera di colonizzazione. La scelta di scrivere in una lingua differente dall’arabo è una scelta personale: ognuno decide per sé. Io sono molto felice di essere nata di lingua araba. Che fortuna, in un mare di sfortuna. Nena News

Pubblicato su il manifesto in data 23 ottobre 2018

Adania Shibli

Roma, 16 ottobre 2018, Nena News – È il momento della letteratura per la rassegna Femminile palestinese che ospita Adania Shibli, scrittrice considerata fra le voci più significative della letteratura contemporanea dei territori occupati. Nata nel 1974 nell’alta Galilea, in un villaggio interno al confine israeliano, oggi vive tra Berlino, Ramallah e Gerusalemme. Vincitrice di numerosi premi, attira l’attenzione di scrittori e critici palestinesi, tra cui Mahmud Darwish che la invita a pubblicare i suoi racconti sulla rivista al-karmil, da lui fondata a Beirut nel 1981, e ripubblicata a Ramallah dal 1996. Oltre all’attività di scrittrice, ha compiuto studi in comunicazione, giornalismo e regia cinematografica, lavora nel campo delle arti visive e collabora con importanti istituzioni culturali palestinesi come al-Hakawati Theater di Gerusalemme e il Sakakini Cultural Centre di Ramallah.

Adania Shibli, come altri scrittori della sua età, non ha vissuto personalmente la Nakba. Fa parte di una generazione che invece ha visto la prima e la seconda intifada, toccando da vicino i fallimenti degli accordi di Oslo, con il conseguente aumento di check point e la costruzione del muro. La sua produzione letteraria quindi prende ispirazione da un vissuto scandito dal quotidiano, in particolare dal quotidiano non esistere dei palestinesi: umiliazione, distruzione, morte, violazione di ogni diritto umano e civile, come la totale assenza di libertà. In uno dei suoi racconti spiega quanto la libertà esista solo nell’immaginario e sia lontana e irraggiungibile come le nuvole: “Ma le nuvole continuano a muoversi, una dietro l’altra, senza fine, e senza calore. Non importa quanto questo sentimento sembri innocente, ma arriva sempre il giorno in cui invidiamo il movimento leggero delle nuvole in cielo, e la libertà degli uccelli nello spostarsi da un luogo all’altro.” (Pallidi segni di quiete, a cura di M. Ruocco – Argo ed., 2014).

Crescere in Palestina vuol dire essere sottoposti al tentativo di Israele di far scomparire i palestinesi”, racconta in un’intervista la Shibli, che oppone a questo l’affermazione di una identità culturale, a iniziare dalla lingua. Sebbene conosca perfettamente l’inglese e l’ebraico, Adania scrive in arabo dedicando una particolare attenzione all’aspetto linguistico, con una potenza narrativa essenziale e eidetica, spesso fatta di immagini. Con lei si delinea un nuovo modo, molto interessante, di fare letteratura. La descrizione dei piccoli gesti della vita quotidiana permette di entrare in punta di piedi, con leggerezza, in una intimità quasi sospesa, violata dal dolore profondo. Un dolore che Adania cerca di sedare, focalizzando l’attenzione sulle piccole cose di tutti i giorni, come se non esistesse la lacerazione della sofferenza, troppo assurda da accettare. Una sorta di indifferenza emotiva, come scrive Monica Ruocco nella sua introduzione al romanzo “Sensi” (Masàs) premiato nel 2001 dalla A. M. Qattan Foundation di Londra come migliore opera prima, da lei tradotto nel 2007 con Argo: “una indifferenza emotiva che per migliaia di individui è l’unico modo di difendersi dall’orrore”. Come cerca di difendersi dal dramma la ragazzina, protagonista del romanzo, che, durante il funerale del fratello, è preoccupata per tutto il tempo di coprire con la mano un buco sul ginocchio sinistro dei suoi pantaloni di velluto blu.

In italiano sono tradotti, oltre al romanzo Sensi (trad. di Monica Ruocco, Argo ed., 2007), anche la raccolta di racconti Pallidi segni di quiete (a cura di M. Ruocco – Argo ed., 2014), e pubblicazioni uscite su varie riviste letterarie. Le sue opere sono tradotte anche in inglese, francese, ebraico.

 

Adania Shibli è a Napoli, ospite della rassegna Femminile palestinese. Il 23 ottobre 2018, alle 16,30 presso la sala conferenze di Palazzo Du Mesnil, (via Chiatamone 61) con lei dialoga Monica Ruocco, docente di lingua e letteratura araba dell’Università degli studi di Napoli “l’Orientale” – dipartimento di Asia, Africa e Mediterraneo. Inoltre il giorno dopo, il 24 ottobre, alle 18,00, presso la libreria Tamu (via Santa Chiara 10), la Shibli incontra la scrittrice Selma Dabbagh, in un confronto letterario, moderato da Monica RuoccoLa Dabbagh è autrice di Fuori da Gaza, (trad di B. Benini – Il Sirente ed., 2017), suo primo e acclamato romanzo, “Gardian Book of the year” nel 2012 e tradotto anche in francese e arabo. Nata a Dundee, in Scozia nel 1970, è una scrittrice britannica, di madre inglese e padre palestinese originario di Jaffa. Ha vissuto in Arabia Saudita, Kuwait, Francia e Bahrein e ha lavorato come avvocato per i diritti umani a Gerusalemme, Il Cairo e Londra.

La rassegna, quest’anno alla quinta edizione, è promossa e sostenuta dal Centro di Produzione Teatrale Casa del Contemporaneo, in partenariato con Regione Campania, Università degli studi di Napoli l’Orientale, Accademia di Belle Arti di Napoli, Università degli studi di Salerno, Comune di Salerno, Fondazione Salerno Contemporanea, Comunità palestinese Campania, Nena News Agency. La programmazione prosegue nel 2019, fra gennaio e marzo, qui di seguito alcuni degli appuntamenti:

Comunica la Palestina: una narrazione diversa, in collaborazione con il Corso di Design della Comunicazione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, il progetto coinvolge 15 designer della comunicazione italiani per la creazione di poster con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso una narrazione diversa da quella dominante. I vari lavori a gennaio saranno oggetto di una mostra, di un catalogo e di una tavola rotonda sul tema della comunicazione sociale e sull’importanza di coniugare l’arte all’impegno politico e sociale.

A marzo, per la prima volta in Italia, il concerto con la band siriano-palestinese Hawa Dafipresso il teatro Ghirelli di Salerno. Dalle Alture del Golan, il gruppo ha sviluppato un’identità musicale unica fondendo strumentazione araba, jazz, rock energico, reggae e musica gitana. È previsto poi un incontro con gli studenti del corso di laurea di letteratura araba in Università Orientale a Napoli e infine una jam-session a Napoli.

Invece “Cinema, hummus e falafel” è il momento dedicato al cinema e al cibo palestinese: Fra cielo e terra” di Sahera Dirbas, “Farid” di Ashraf Shakah, “The fading Valley” di Irit Gal saranno proiettati presso il teatro Ghirelli di Salerno accompagnati da hummus e falafel.

E poi reading (Voci di scrittori arabi di ieri e di oggi curato da Isabella Camera D’Afflitto, Bompiani – 2017), presentazioni di libri (di Chiara Cruciati e Michele Giorgio, Israele, mito e realtà – ed. Alegre, 2018) e spettacoli teatrali completeranno la programmazione. Nena News

Continua la nostra rassegna con il doppio appuntamento dedicato alla letteratura. Protagonista è la scrittrice palestinese Adania Shibli, con noi sia il 23 che il 24 ottobre 2018.

Il primo giorno, alle 16,30 a Napoli presso la sala conferenze di Palazzo Du Mesnil. Adania Shibli dialoga con Monica Ruocco, docente di lingua e letteratura araba dell’Università degli studi di Napoli “l’Orientale” – dipartimento di Asia, Africa e Mediterraneo.

La scrittrice, nata nel 1974 nell’alta Galilea, è considerata una delle voci più importanti della letteratura contemporanea palestinese. Oggi vive tra Berlino, Ramallah e Gerusalemme. Vincitrice di numerosi premi, attira l’attenzione di scrittori e critici palestinesi, tra cui Mahmud Darwish che la invita a pubblicare i suoi racconti sulla rivista al-karmil, da lui fondata a Beirut nel 1981, e ripubblicata a Ramallah dal 1996.
Adania Shibli
“Crescere in Palestina vuol dire essere sottoposti al tentativo di Israele di far scomparire i palestinesi”, racconta in un’intervista la Shibli, che oppone a questo l’affermazione della propria identità, a iniziare dalla lingua. Sebbene conosca perfettamente l’inglese e l’ebraico, Adania scrive in arabo dedicando una particolare attenzione all’aspetto linguistico, con una potenza narrativa essenziale e spesso fatta di immagini. Con lei si delinea un nuovo modo, molto interessante, di fare letteratura nei territori occupati.

In italiano sono tradotti il romanzo Sensi (trad. di Monica Ruocco, Argo ed., 2007) e la raccolta di racconti Pallidi segni di quiete (a cura di M. Ruocco – Argo ed., 2014), oltre a pubblicazioni uscite su varie riviste letterarie.

Il secondo giorno dopo, 24 ottobre, presso la libreria Tamu in via Santa Chiara 10, la Shibli invece incontra la scrittrice Selma Dabbagh, in un confronto letterario, moderato da Monica Ruocco. La Dabbagh è autrice di Fuori da Gaza, (trad di B. Benini – Il Sirente ed., 2017).

Selma Dabbagh, nata a Dundee, in Scozia nel 1970, è una scrittrice britannica, di madre inglese e padre palestinese originario di Jaffa. La Dabbagh ha vissuto in Arabia Saudita, Kuwait, Francia e Bahrein e ha lavorato come avvocato per i diritti umani a Gerusalemme, Il Cairo e Londra. “Fuori da Gaza” è il suo primo e acclamato romanzo, “Gardian Book of the year” nel 2012, è stato tradotto in francese e arabo.

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La rassegna Femminile palestinese

L’evento fa parte della quinta edizione di “Femminile Palestinese”, rassegna che si tiene prevalentemente fra Napoli e Salerno, e che prosegue con altri appuntamenti previsti nel prossimo anno. Il programma 2019 prevede la realizzazione di un progetto di comunicazione in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Napoli: “Comunicare la Palestina. Una narrazione diversa” che coinvolge 15 designer della comunicazione italiani per la creazione di poster con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso una narrazione diversa da quella dominante. I vari lavori poi saranno oggetto di una mostra, di un catalogo e di una tavola rotonda, sul tema della comunicazione sociale e sull’importanza di coniugare l’arte all’impegno politico e sociale. La mostra sarà a cura di Pino Grimaldi, docente di design in Accademia di Belle Arti di Napoli.
Invece “Cinema, hummus e falafel” è il momento dedicato al cinema e al cibo palestinese: “Fra cielo e terra” di Sahera Dirbas, “Farid” di Ashraf Shakah, “The fading Valley” di Irit Gal saranno proiettati presso il teatro Ghirelli di Salerno accompagnati da hummus e falafel.
Infine reading (Voci di scrittori arabi di ieri e di oggi curato da Isabella Camera D’Afflitto, Bompiani – 2017), presentazioni di libri (di Chiara Cruciati e Michele Giorgio, Israele, mito e realtà – ed. Alegre, 2018) e spettacoli teatrali completeranno la programmazione.

“Femminile palestinese” parla di Palestina attraverso la sua cultura e la voce delle sue donne, o comunque tramite il contributo di studiose della cultura e della società palestinese. La rassegna è scandita dalla presenza di giornaliste, arabiste, registe, storiche, antropologhe, cuoche, scrittrici, artiste, musiciste, etc., di donne in grado di attivare percorsi culturali diversi che ridisegnano e mettono in discussione i confini e le narrazioni dominanti. I linguaggi usati sono svariati per intercettare i diversi interessi in maniera trasversale. Il cinema, l’arte, il teatro, la letteratura, la musica, l’analisi giornalistica, l’approfondimento scientifico, la cucina, sono solo alcuni dei temi che animano il progetto, riuscendo ad arrivare a un pubblico ampio e differenziato. Con le ultime edizioni la rassegna si colloca fra le manifestazioni di rilievo a livello nazionale che promuovono la cultura araba e in particolare quella palestinese.

Il progetto è promosso e sostenuto dal Centro di Produzione Teatrale Casa del Contemporaneo, con il partenariato di Università degli studi di Salerno, Università degli studi di Napoli l’Orientale, Comune di Salerno, Fondazione Salerno Contemporanea, Accademia di Belle Arti di Napoli, Comunità palestinese Campania, Nena News Agency. Il quotidiano Il Manifesto è media partner.

Tempi presenti. Un’intervista con l’antropologa Ruba Salih, ospite domani della rassegna «Femminile Palestinese» curata da Maria Rosaria Greco, su decolonizzazione e libertà accademica. «Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli permette di autoescludersi da essa»

di Chiara Cruciati   il Manifesto

A settant’anni anni dalla Nakba e la fondazione dello Stato di Israele il popolo palestinese vive da rifugiato, apolide e disperso. Dentro la Palestina storica la colonizzazione israeliana prosegue incessante, supera le frontiere ed entra nel linguaggio, la produzione del sapere, la narrativa internazionale.

Il processo di «memoricidio», come l’ha definito lo storico israeliano Ilan Pappe, ha permesso a Israele di radicare nell’immaginario collettivo miti che non hanno riscontro storico, un’idea di Israele che plasma una storia e forgia un linguaggio, quelli del vincitore.

Ne abbiamo discusso con Ruba Salih, antropologa italo-palestinese e docente alla Soas dell’Università di Londra. Con Pappe è stata all’Università di Salerno ieri per discutere di «Decolonizzazione e libertà accademica», evento della rassegna Femminile Palestinese curata da Maria Rosaria Greco.

Cosa significa decolonizzare l’accademia?

Gli effetti del processo coloniale del secolo scorso, la cui espressione attuale è l’occupazione israeliana, rimbalzano nel mondo accademico, non esistendo una produzione del sapere isolata dagli avvenimenti politici esterni. Si vede nei programmi, le politiche delle università, i testi spesso distorti in quanto riproduttori di canoni coloniali. La decolonizzazione si realizza in primo luogo individuando i legami che la produzione del sapere ha con l’apparato economico, militare e politico responsabile dei processi neocoloniali.

In secondo luogo svelando i modi in cui l’università riproduce una politica economica non neutrale ma basata su rapporti di potere: attraverso corporation e investimenti in paesi in cui tali processi sono in atto e attraverso l’ammissione di studenti di una certa classe o etnia, decidendo a priori chi diventerà élite e chi ne sarà escluso. In terzo luogo agendo sulla cultura politica quotidiana, ripensando la performatività dell’insegnamento e le modalità di rapporto con persone che non hanno la stessa tradizione pedagogica o epistemologica.

Infine, decolonizzando il sapere: analizzare come i paradigmi neocoloniali sono riproposti nella letteratura, ancora improntata sul sapere bianco, maschile, di upper class, che rappresenta culture e popoli diversi come soggetti chiusi e statici, oggetti di ricerca estranei alla loro dimensione politica e culturale. Una forma di feticismo.

In Italia sono stati cancellati eventi, anche da università, incentrati sulla Palestina. Lei è stata protagonista di un simile atto di censura. Cosa è successo?

A novembre avevo organizzato un evento con Omar Barghouti all’Università di Cambridge. L’ateneo lo ha cancellato e io sono stata accusata di non essere neutrale. Un attacco gravissimo, che prelude alla messa in discussione della mia capacità di insegnamento, e al mondo accademico in sé perché la censura è giunta nel quadro di Prevent, la legge britannica anti-terrorismo e anti-radicalizzazione. La sua oscura implementazione ha trasformato le università in luoghi di sospetto dove la libertà di espressione si è assottigliata.

E Prevent ha un capitolo dedicato alla questione palestinese, etichettata come area di radicalismo. Professori e studenti si sono mobilitati: sono state raccolte firme e il caso è stato reso pubblico. Cambridge è stata accusata di violazione della libertà di espressione e di insegnamento. E alla fine si è scusata, dicendo di aver ceduto alle pressioni di quelle che ha definito lobby. In Inghilterra sono fortissime, gruppi con la missione di limitare le espressioni di solidarietà con la Palestina.

Intervengono con diverse strategie: l’ambasciatore israeliano fa il giro delle università come ospite; attivisti pro-israeliani intervengono sistematicamente nei dibattiti per ridicolizzare la discussione, accusare di antisemitismo o filmare i presenti, compiendo violenza psicologica. Si difendono parlando di libertà di parola, che però non vale in senso positivo visto che ci impediscono di esercitare la nostra. Promuovono un’idea asettica e neo-liberal della neutralità, che si applica solo ad alcuni ambiti.

In un suo saggio su islamismo e femminismo parla della necessità di superare «l’approccio etnocentrico con cui molta parte del pensiero femminista occidentale ha per lungo tempo guardato ad altre esperienze di emancipazione, soprattutto nel mondo islamico». Siamo fermi alla visione coloniale del secolo scorso, paternalismo e superiorità intellettuale?

Oggi non esiste nemmeno più l’approccio paternalistico verso le donne dei paesi colonizzati, quella missione «civilizzatrice» che il colonizzatore si attribuiva. Si è andati oltre gerarchizzando l’umanità. Con la rinascita di movimenti neofascisti non c’è più bisogno di produrre un discorso legittimizzante: l’altro non esiste in quanto essere umano. Macerata ha palesato l’approccio suprematista che cancella il discorso culturale con cui il colonialismo si legittimava. Scompare anche la «curiosità» che mosse i colonizzatori, una conoscenza mirante al controllo in senso foucaultiano. Oggi l’interesse alla conoscenza non c’è perché una parte di umanità va esclusa ai fini dello sviluppo generale. Su questo ha un ruolo anche l’accademia dove riemergono pericolose riabilitazioni di rappresentazioni coloniali, che nella pratica pesano su studenti di una certa provenienza, sottoposti a draconiane misure di controllo.

Rientra in tale contesto anche il superficiale approccio all’Islam, etichettato come religione di oppressione femminile?

Si è fermi all’idea coloniale della donna come priva di volontà e capacità di decidere per sé. Il discorso è simbolico e politico: sui corpi delle donne si costruisce il senso della nazione e si misurano i suoi confini rispetto alle altre. La questione in Occidente non attiene alla donna in sé, ma alla necessità di giustificare l’enorme violenza che le società occidentali esercitano sulle donne.

Pensiamo alle due giovani uccise in Italia con quasi identiche modalità, Pamela a Macerata e Jessica a Milano: nel primo caso un paese si è mobilitato fino a un attentato terroristico quasi legittimato; sul secondo è calato il silenzio, seppur si tratti di identica violenza esercitata da un uomo. Il meccanismo attraverso cui una cultura giustifica la violenza gli permette di autoescludersi da quella violenza, riproponendo l’idea che il male sia altrove.

Domani, a Salerno, prenderà parte alla rassegna «Femminile palestinese», che racconta la Palestina attraverso le voci delle donne…

Il movimento delle donne in Palestina è vecchio di cento anni, inserito in una società tradizionale dove coestistono movimenti femministi, religiosi, comitati popolari, dove la resistenza è quotidiana. In Palestina dove c’è politica ci sono le donne, come ci sono nella produzione culturale e artistica di cui spesso hanno influenzato se non modificato la narrativa (penso a scrittrici come Sahar Khalifeh o poetesse come Fadwa Tuqan). Eppure per lungo tempo l’occupazione israeliana ha guardato alle donne palestinesi come soggetti fragili e quindi oggetto di minore violenza diretta. Non per umanità ma per una struttura mentale coloniale che guarda alla società palestinese come retrograda e patriarcale.

Oggi il cambiamento è dirompente: se nella Prima Intifada c’è stata una sospensione dei ruoli di genere, perché le donne partecipavano alle diverse forme di disobbedienza civile e alla costruzione della società esattamente come gli uomini, oggi le donne – lo dimostra Ahed Tamimi – hanno ripreso un ruolo su tutti i livelli, anche quello fisico, ponendo i loro corpi contro l’occupazione. È una presenza che parla agli uomini palestinesi ma anche all’occupazione, un doppio processo di de-mascolinizzazione.

Da giorni le università britanniche sono in sciopero. Quali le ragioni?

È il più grande sciopero della storia accademica britannica contro il progetto di far dipendere le pensioni dall’andamento del mercato: si profila un dimezzamento della pensione. Ciò significa che chi non viene da famiglie benestanti sarà escluso dal mondo accademico. È un attacco generalizzato alla cultura, giustificato con la bugia del deficit. Ma se gli studenti pagano in media 9mila sterline l’anno, gli atenei licenziano, ristrutturano e non reinvestono in borse di studio o programmi educativi. Al contrario raddoppiano gli stipendi dei manager e investono nel settore immobiliare. Nulla di nuovo nel panorama del neoliberismo. Di nuovo c’è il mix tra delegittimazione degli accademici e guerra dei ricchi ai poveri.

Domani incontro a Salerno insieme a Ilan Pappe

«Palestina, decolonizzazione e libertà accademica»: è il titolo dell’incontro domani 2 marzo alle 10.30 nell’aula Vittorio Foa del dipartimento Dspsc dell’Università di Salerno. Organizzato dalla rassegna «Femminile Palestinese», curata da Maria Rosaria Greco e da Casa del Contemporaneo, vedrà l’intervento dello storico israeliano Ilan Pappe e dell’antropologa italo-palestinese Ruba Salih, che discuteranno del tema con Giso Amendola e Gennaro Avallone.

A intrecciarsi sono i temi dirimenti della decolonizzazione dentro e fuori l’accademia, sfida alla narrazione israeliana che si è imposta nel discorso occidentale sulla questione palestinese. L’incontro si inserisce all’interno di una rassegna, alla quinta edizione, focalizzata sull’analisi dello scenario contemporaneo in Palestina attraverso voci e storie di donne, giornaliste, registe, cuoche, artiste.

All’evento di venerdì seguiranno l’incontro con la scrittrice palestinese Adania Shibli e la rassegna cinematografica e gastronomica «Cinema, hummus e falafel». In questi giorni è inoltre in uscita la seconda edizione del libro «Di storia in storia. From tale to tale», ora bilingue, pubblicato da Oèdipus Edizioni a cura di Maria Rosaria Greco: la trascrizione integrale della lectio magistralis che Ilan Pappe tenne a Salerno sulla pulizia etnica della Palestina e sull’importanza del linguaggio e del ruolo dell’accademico. Il libro vuole essere il primo di una serie di «quaderni della rassegna» che ne permettano una documentazione puntuale.

https://ilmanifesto.it/quando-la-produzione-del-sapere-e-legata-ad-apparati-di-potere/
https://nena-news.it/quando-la-produzione-del-sapere-e-legata-ad-apparati-di-potere/

di Maria Rosaria Greco*

Roma, 26 febbraio 2018, Nena News – “Palestina, decolonizzazione, libertà accademica” è il tema dell’incontro con cui ritorna la rassegna Femminile palestinese, quest’anno alla quinta edizione. Il 2018 inizia con la presenza dello storico israeliano Ilan Pappe (University of Exeter) e dell’antropologa italo-palestinese Ruba Salih (SOAS – School of Oriental and African Studies, University of London) il 2 marzo 2018, alle ore 10.30, presso l’Aula Vittorio Foa del DSPSC (Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione) dell’Università di SalernoCon loro intervengono Giso Amendola, Sociologia del diritto (Università di Salerno) e Gennaro Avallone, Sociologia urbana (Università di Salerno). L’incontro è aperto a tutti.

La decolonizzazione culturale della Palestina è il focus che entrambi gli ospiti, protagonisti del panorama accademico internazionale, analizzano da anni. Ruba Salih, professore associato all’Università SOAS di Londra, è anche membro del Consiglio arabo per le scienze sociali e fondatrice del sottocomitato per la libertà accademica nella regione araba. Ilan Pappe, in Palestina e Israele: che fare? (Fazi editore), scritto a quattro mani con il linguista Noam Chomsky, riflette proprio sull’importanza di utilizzare parole come “decolonizzazione” al posto di “processo di pace”, oppure “pulizia etnica” al posto di “Nakba” per poter ribaltare significati che da sempre si inseguono nella continua confusione fra vittima e carnefice. A 70 anni dalla fondazione dello Stato di Israele e quindi dalla pulizia etnica della Palestina, iniziata nel 1948, “decolonizzazione” e “libertà accademica” sono temi centrali attorno ai quali si fonda tutta la sua ricerca e il suo lavoro che sfida, da sempre, la narrazione della storiografia ortodossa israeliana.

Decolonizzare significa non solo interrompere e smantellare il colonialismo da insediamento sul territorio, avviato nel 1948, continuato nel 1967, e ampiamente attivo oggi in Palestina, ma anche contrastare la sistematica azione che Pappe definisce di “memoricidio”cioè la narrazione del progetto sionista nella società israeliana e nella comunità internazionale. Lo storico ne parla nei suoi libri, in particolare negli ultimi due pubblicati nel 2017: Ten myths about Israel (Dieci miti su Israele) The biggest prison on earth: a history of the occupied territories (La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati).

Nel primo, con una puntuale analisi storica, esamina le idee più contestate riguardo alle origini e all’identità di Israele. Spiega come la disinformazione storica, anche recente, promuova l’oppressione, l’ingiustizia e protegga un regime di colonizzazione. Uno dei miti affrontati, per esempio, è l’affermazione sionista secondo cui la Palestina era una terra vuota. I registri ottomani del 1878 parlano di una popolazione pari a quella odierna in Israele/Palestina di cui l’87% erano musulmani, il 10% cristiani e il 3% ebrei. E la Palestina non era un deserto, ma una fiorente società araba con una rete costiera di porti e città molto attive nei collegamenti commerciali con l’Europa, mentre le fertili pianure interne intrattenevano scambi commerciali con le regioni vicine dell’entroterra. Dunque quella “terra vuota” era parte di un ricco mondo del Mediterraneo orientale che nel XIX secolo si avviava verso processi di modernizzazione e nazionalizzazione.

Nel secondo libro, The biggest prison on earth: a history of the occupied territories Ilan Pappe invece racconta di insediamenti, posti di blocco e punizioni collettive assolutamente pianificate in quanto parte del progetto sionista di colonizzazione. Lo storico spiega con chiarezza il meccanismo creato per governare in maniera efficace milioni di palestinesi, che vivono in una prigione a cielo aperto da 50 anni. Questo libro è stato selezionato per il “Palestine Book Award 2017, e, come il primo, è stato pubblicato nel cinquantesimo anniversario della guerra del 1967, cioè a 50 anni dall’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Entrambi non sono ancora tradotti in italiano.

Soltanto un mondo accademico libero e autonomo potrà dare sostegno alla resistenza popolare dal basso che continua, senza sosta, quella resistenza civile di chi ogni giorno protesta contro il muro dell’apartheid, contro l’esproprio delle terre, di chi fa lo sciopero della fame perché prigioniero politico. I media non ne danno notizia. Spetta al mondo scientifico, della cultura, degli atenei, quindi, argomentare e instaurare un dibattito onesto in assoluta indipendenza.

Ruba Salih è a Salerno per la prima volta, ospite di “Femminile palestinese”. Il suo ultimo libro Musulmane rivelate: donne, islam, modernità (Carocci Editore) parla della condizione della donna secondo l’Islam e nei paesi arabi attraverso storie di donne e attraverso la sua lettura di un mondo, quello arabo, di cui è profonda conoscitrice. Nel libro le sue riflessioni sono un’occasione per rivedere convinzioni e pregiudizi ormai consolidati. L’antropologa italo-palestinese studia e scrive su questioni di genere e migrazione transnazionali in Europa, Medio Oriente e Nord Africa, con un focus specifico sulla Palestina e i suoi rifugiati.

In un suo precedente saggio su femminismo e islamismo afferma che “mai come ora è necessario trovare delle concettualizzazioni del femminismo che si pongano in un’ottica di superamento nei confronti di quell’approccio etnocentrico con cui molta parte del pensiero femminista occidentale ha per lungo tempo guardato ad altre esperienze di emancipazione, soprattutto nel mondo islamico” nel tentativo di “superare un’unica epistemologia femminista per avviare una nuova concezione del femminismo che sia in grado di cogliere le specificità culturali all’interno delle quali una molteplicità di movimenti femminili in diverse società avanzano richieste di diritti e di riconoscimento”.

Ilan Pappe è già stato ospite della rassegna “Femminile palestinese”, ritorna a Salerno per la terza volta. Uno dei più autorevoli storici israeliani, di sicuro stella polare per chi vuole ricomporre i tasselli di una corretta ricostruzione storica in contrasto con la storiografia ufficiale, ancora più necessaria oggi nel settantesimo anniversario della nascita dello stato israeliano, a 70 anni, cioè, dalla pulizia etnica della Palestina. Lo ha spiegato nel suo libro più famoso La pulizia etnica della Palestina” (Fazi editore), di cui ci ha parlato nel primo incontro salernitano nel 2015, che aveva lo stesso titolo. Secondo Pappe “il ruolo dello storico è quello di parlare non solo di cosa è accaduto nel passato, ma di spiegare perché il passato è importante per noi oggi nel presente” aggiungendo che “l’impegno dell’accademico nasce dal dovere morale nei confronti dell’umanità”.

Tutto il suo discorso, una sorta di lectio magistralis, è diventato poi un libro bilingue Di storia in storia – From tale to tale (edizioni Oèdipus) di cui esce in questi giorni la seconda edizione. Già in quello stesso discorso (e quindi nel libro Di storia in storia) lo storico parla anche dell’importanza del linguaggio, tema poi affrontato nel suo secondo incontro salernitano “Linguaggio, comunicazione, decolonizzazione” del 2016Lo storico ci ricorda che è necessario superare quel linguaggio tipico di una vecchia ortodossia pacifista, in cui le espressioni più usate erano “processo di pace” o “negoziati” o ancora “conflitto israelo-palestinese”.

Ilan Pappe suggerisce di sostituire queste parole con un vocabolario nuovo che spinga verso un radicale cambiamento dell’opinione pubblica. Per esempio quanto accadde nel 1948 in Palestina non va definito semplicemente una catastrofe (Nakba), ma appunto una vera pulizia etnica, proprio per potere individuare di conseguenza una vittima e un aggressore, punto di partenza essenziale per cercare una riconciliazione. La comunità internazionale riconosce la pulizia etnica come crimine per cui, definire in questo modo preciso l’esodo forzato di circa 750.000 persone, permetterebbe una puntuale connotazione di quei fatti e Israele potrebbe rinascere da una corretta assunzione di responsabilità.

Era inevitabile dunque che Ilan Pappe fosse ospite della rassegna Femminile palestinese per una terza volta, esattamente nel settantesimo anniversario della nascita di Israele, per analizzare lo scenario attuale e approfondire il tema della libertà accademica, strumento essenziale di decolonizzazione.

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La rassegna. Femminile palestinese, quest’anno alla quinta edizione, continua l’analisi dello scenario contemporaneo in Palestina a 70 anni dalla fondazione dello stato israeliano, avvenuta nel 1948. In questa riflessione, il ruolo della donna è ancora una volta centrale per i percorsi culturali che sa attivare e per come sa ridisegnare e mettere in discussione i confini e le narrazioni dominanti. La rassegna è scandita dalla presenza di giornaliste, arabiste, registe, antropologhe, cuoche, scrittrici, artiste, musiciste, studiose della cultura e della società palestinese.

In particolare, l’edizione 2018 ha in programma la realizzazione del progetto “Comunicare la Palestina. Una narrazione diversa in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Napoli: 15 designer della comunicazione verranno chiamati a una campagna di sensibilizzazione sulla questione palestinese, ognuno di loro quindi dovrà creare un poster che porti avanti una narrazione diversa da quella dominante. I prodotti finali saranno poi oggetto di una mostra, un catalogo e una tavola rotonda sul tema della comunicazione sociale. Il programma, poi, vede la presenza della scrittrice palestinese Adania Shibli in un incontro organizzato in collaborazione con l’Università di Napoli l’Orientale. Ancora spazio, infine, a cinema e gastronomia palestinesi con l’evento “Cinema, hummus e falafel” che prevede la proiezione di “Fra cielo e terra” di Sahera Dirbas, “Farid” di Ashraf Shakah, “The fading Valley” di Irit Gal, accompagnati da hummus e falafel. Reading, presentazioni di libri e spettacoli teatrali completeranno la programmazione.

Il progetto è promosso e sostenuto dal Centro di Produzione Teatrale Casa del Contemporaneo in partenariato con Università di Salerno, Università di Napoli l’Orientale, Fondazione Salerno Contemporanea, Accademia di Belle Arti di Napoli, Comunità palestinese Campania, Nena News Agency. Il quotidiano Il Manifesto è media partner.

*curatrice della rassegna

Meiroun

Questo disegno Hawa-Blad di Meiroun ميرون, su gentile concessione di Amal Ziad Kaawash è stata l’immagine simbolo della rassegna Femminile palestinese del 2014.

Scrive Paola Viviani della Seconda Università di Napoli, come Meiroun, creata dalla Kaawash, sia “una figura emblematica che si ricollega magistralmente a tante eroine letterarie arabe il cui desiderio di libertà e autonomia, al pari di quello delle loro sorelle e compagne in carne e ossa, si è sovente espresso e concretizzato attraverso la simbologia del velo e dei capelli, più o meno visibili o del tutto liberi da costrizioni.
(..) Oggi Meiroun mostra finalmente il proprio viso al pubblico, che ben ne conosce il profilo in ombra, a stento illuminato dalla pur brillante luna (..) il corpo celeste, la Palestina agognata.
I capelli di Meiroun, da sempre stretti in due trecce sollevate dal vento, sono ora sciolti e si librano con elegante e festante disinvoltura verso l’alto, assumendo la forma di note che rivelano la loro intrinseca natura, ossia di frammenti armonici che vogliono dar voce all’anelito di libertà”.

Amal aveva disegnato e dedicato questa sua immagine a una amica che viveva a Gaza e con la quale aveva condiviso il sogno di tornare finalmente insieme al villaggio dal quale le loro famiglie erano state cacciate nel 1948, che si chiama Meiroun appunto. Le due colombe presenti dentro alla luna cosi grande e vicina sono quindi le due amiche ormai vicine al raggiungimento del loro sogno.
Meiroun è una creatura apparentemente fragile, indifesa, ma che continua in maniera struggente a pensare al ritorno, a sognare la luna. Incarna la forza e la determinazione di un popolo che non si arrende. Amal in un’intervista spiega che per lei “Meiroun rappresenta tutti i palestinesi, tutte le donne arabe e tutte le donne del mondo”.

Amal Ziad kaawash sarà con noi a Salerno il 18 settembre p.v per la prima volta in Italia https://www.facebook.com/events/361995894188141/

Ibrahim Nasrallah è un gigante dal punto di vista letterario e dal punto di vista umano. Ha toccato le corde più intime di tutti i presenti il 20 maggio scorso nel reading “se i poeti perdono”. Vogliamo ringraziare tutti per il calore, per la sala gremita dall’inizio alla fine, per aver rafforzato in noi l’idea di andare avanti.

«In quella città bella e lontana, nel cortile ricoperto d’erba, ogni cosa cantava, la gente danzava. Disse: “va dalla puledra, invitala a ballare”. Ero timido. Se i poeti perdono non vince il mondo»

di Maria Rosaria Greco 

 

Ibrahim Nasrallah è uno dei massimi poeti palestinesi, ha vinto numerosi premi letterari, tra i quali il prestigioso “Sultan ’Aways” per la poesia nel 1997. È anche scrittore, oltre che insegnante, giornalista, critico cinematografico, pittore, fotografo.  Il 20 maggio 2016 è nostro ospite nella rassegna FEMMINILE PALESTINESE che curo a Salerno dal 2014. Insieme a lui sono presenti  Simone Sibilio, docente di letteratura araba alla Ca’ Foscari di Veneziache presenta la sua produzione e Omar Suleiman che legge alcuni suoi brani.

Le sue opere si diffondono  in Occidente  dove vengono tradotte in diverse lingue. Ha pubblicato moltissimo: romanzi, libri per bambini, saggi e, ovviamente, molte raccolte di poesie. In italiano sono stati tradotti due suoi romanzi , “Febbre” (Edizioni Lavoro 2001, trad. Capezzone), “Dentro la notte. Diario palestinese” (Ilisso 2004, trad. Dahmash) e una raccolta di poesie “Versi” (Edizioni Q 2009, trad. Dahmash).

Nasce nel 1954, 6 anni dopo la Nakba, nel campo profughi di Wihdat in Giordania, figlio di genitori palestinesi originari di un villaggio vicino Gerusalemme che hanno dovuto lasciare dopo il 1948. La sua infanzia nel campo profughi e l’esperienza della diaspora sono un marchio indelebile nella sua vita e nelle sue opere. Crescendo trova conforto nella conoscenza della cultura internazionale, inizia a leggere e studiare da solo, attraverso la letteratura infatti riesce a volare oltre ogni confine e conosce il mondo. Conosce perfettamente anche i nostri autori: Dante, Manzoni, Pirandello, Montale, Calvino. Tutta la cultura, la letteratura araba e occidentale, rappresentano per lui una rinascita, un grembo materno che lo accoglie, lo nutre e gli dona una nuova vita, una dimensione umana che era stata sottratta, a lui e al suo popolo.

La terza edizione della rassegna “femminile palestinese” ha come sottotitolo “l’occupazione oggi” perché Il focus quest’anno è analizzare qual è la situazione della Palestina oggi, dopo quasi 70 anni di occupazione. Ed è proprio il tema dell’occupazione, del colonialismo, che è presente nelle opere di Nasrallah come un filo conduttore di una nostalgia struggente che solo nella poesia trova riparo. “Se perdono i poeti, non vince il mondo”scrive in una sua poesia. Per lui l’occupazione, ovunque si trovi nel mondo, è la massima espressione di razzismo perché impedisce a un popolo la propria autodeterminazione, appropriandosi della vita delle persone, decidendone il destino. Chi vive sotto occupazione viene privato dei propri sogni, della propria libertà, delle forme più semplici di vita.

È una scrittura altissima quella di Ibrahim Nasrallah che intercetta le emozioni che sgorgano dagli oggetti, dalle storie, dai personaggi per raccontare la pulizia etnica e la diaspora dei palestinesi, ma anche per tutelare i diritti violati delle categorie più esposte. In “Balcony of disgrace” (balcone del disonore) affronta il tema del delitto d’onore, descrivendone la crudeltà e lo scenario di degrado sociale.  Le vittime di questo crimine sono donne innocenti private ​​dei loro diritti. Nasrallah analizza la condizione della donna araba, in particolare nelle classi sociali più povere e, attraverso i personaggi del romanzo, rivisita il significato di concetti dominanti  come onore, virtù, purezza, virilità. È attraverso la letteratura che lo scrittore stimola il cambiamento. Nasrallah scrive questo romanzo dopo aver letto un rapporto delle Nazioni Unite nel 2009 che definiva il numero dei delitti d’onore: ogni anno in tutto il mondo circa 5000 donne sono vittime di questo crimine.

Altro tema molto caro a Nasrallah sono i giovani e in particolare il diritto all’infanzia serena che troppi bambini palestinesi e arabi vedono quotidianamente calpestato. Lui cresciuto in un campo profughi sa molto bene cosa significa essere ragazzi di strada, senza opportunità di crescita culturale, continuamente umiliati e privati di qualsiasi speranza o sogno dall’esercito israeliano.  Nel 2014 partecipa al progetto Climb of Hope (La Scalata della Speranza) promosso dal Pcrf (Fondo di soccorso ai bambini palestinesi – Palestine Children’s Relief Fund), che prevede la scalata del monte Kilimanjaro da parte di Yasmin e Mutassem, due adolescenti palestinesi accompagnati da un gruppo di volontari. I due ragazzi hanno una sola gamba: lei, Yasmin, viene investita a tre anni da un veicolo dell’esercito israeliano di fronte a casa sua, a Ramallah, lui, Mutassem, di Gaza, gli viene amputato l’arto a seguito di un bombardamento israeliano. Il progetto vuole attirare l’attenzione del mondo sui tanti giovani arabi morti o divenuti disabili, per ferite conseguenti a bombardamenti o alla “normale” occupazione militare. Climb of Hope  ha lo scopo di raccogliere fondi per garantire loro cure mediche, per trattarne i traumi psicologici  e per sostenere il loro futuro in vari modi, offrendo una speranza, un’opportunità.  Ibrahim Nasrallah  definisce questi ragazzi senza gambe “i figli della vita, i figli di un popolo che da un secolo combatte per la libertà e questo popolo non sarà mai sconfitto”.

La poesia e la letteratura secondo Ibrahim Nasrallah sono fondamentali per raccontare queste storie a tutto il mondo.  La cultura palestinese è la patria in cui rifugiarsi, il luogo in cui nutrirsi e rigenerarsi, come un vangelo, un corano, un libro sacro che codifica e scandisce i ritmi di una dimensione umana, laica e appassionata, tutt’ora negata a un popolo che invece non perde la speranza, ancorato alla vita e alla propria identità.  Il ruolo dell’intellettuale secondo Nasrallah è quello di guidare, sostenere.  Il poeta non può perdere. “In quella città bella e lontana, nel cortile ricoperto d’erba, ogni cosa cantava, la gente danzava. Disse: “va dalla puledra, invitala a ballare”. Ero timido. Se i poeti perdono non vince il mondo”

di Maria Rosaria Greco

 

Celebriamo questo 25 aprile 2016 con una liberazione simbolica: si chiama Dima al-Wawiha solo 12 anni, oggi è stata rilasciata dopo 75 giorni di detenzione in una prigione israeliana. Il motivo? Quale motivazione potrà mai giustificare questa gravissima violazione dei diritti umani e dell’infanzia? Unica nazione al mondo, secondo l’UNICEF, Israele applica leggi militari secondo le quali può imprigionare minori palestinesi considerati sospetti, anche se hanno 12 anni. Al contrario, ai coloni israeliani in Cisgiordania, viene applicato il diritto civile di Tel Aviv che non consente la detenzione per nessun minore sotto i 14 anni.

Sono felice di essere fuori. La prigione è brutta” ha dichiarato oggi Dima “Durante la mia permanenza in prigione ho sentito la mancanza dei miei compagni di classe, dei miei amici e della famiglia“. Una bambina che avrebbe il diritto di continuare la sua vita di bambina, Dima è la più giovane palestinese mai imprigionata.Arrestata a nord di Hebron il 9 febbraio scorso, mentre tornava da scuola, perché secondo i soldati israeliani nascondeva un coltello nello zaino. Alcuni testimoni raccontano una versione diversa: la ragazza sarebbe stata aggredita e portata via perché stava camminando vicino a un insediamento illegale. Dima viene condannata a quattro mesi e mezzo di carcere e al pagamento di una multa di 8000 shekels, viene ripetutamente sottoposta a duri interrogatori, senza la presenza di un rappresentante legale o un adulto della famiglia.

Sono circa 440 i minori palestinesi nelle carceri israeliane, secondo Defence for Children International – Palestine (DCI). Più di 100 di questi bambini sono tra i 12 e i 15 anni. Il Comitato dei Detenuti Palestinesi e l’Associazione dei Prigionieri Palestinesi, nel rapporto congiunto pubblicato il 17 aprile scorso, dichiarano che sono 7.000 in tutto i prigionieri palestinesi. Dal 1° ottobre 2015, l’esercito israeliano ha arrestato almeno 4800 palestinesi tra cui 1400 bambini, la maggior parte dei quali provenienti da Hebron e Gerusalemme.

Dima oggi è stata liberata anticipatamente anche grazie alla campagna di sensibilizzazione lanciata dal suo avvocato e dalla sua famiglia. Ma rimarrà in lei un segno indelebile, come dovrebbe essere anche per tutti noi. Un’altra infanzia spezzata, una storia di occupazione come tante, una storia Femminile palestinese invisibile agli occhi del mondo. Per questo, 25 aprile per noi è resistenza e liberazione da queste occupazioni. Resistenza è oggi come ieri contro ogni fascismo, in Italia come in Palestina e in tutto il mondo. Finché permetteremo crimini contro l’umanità, violazioni di diritti umani e civili come questi non possiamo sentirci liberi. Ci stringiamo a Dima, alla sua famiglia e al suo popolo che resistono.

Ai primi giornalisti che la volevano intervistare dopo la sua scarcerazione, Dima, che all’inizio era silenziosa, stringendosi alla madre, ha dichiarato “Non ho avuto paura e mi auguro che vengano liberati tutti i prigionieri”. Ha solo 12 anni.

5 anni fa veniva ucciso Vittorio Arrigoni, lo ricordiamo con questa poesia che scrive per lui Ibrahim Nasrallah. Il poeta e scrittore palestinese rifugiato in Giordania, Ibrahim Nasrallah, sarà a Salerno per la rassegna Femminile palestinese il 20 maggio p.v. Restiamo umani Vik

Hanno ucciso tutti
hanno ucciso tutti i minareti
e le dolci campane
uccise le pianure e la spiaggia snella
ucciso l’amore e i destrieri tutti, hanno ucciso il nitrito.
Per te sia buono il mattino.
Non ti hanno conosciuto
non ti hanno conosciuto fiume straripante di gigli
e bellezza di un tralcio sulla porta del giorno
e delicato stillare di corda
e canto di fiumi, di fiori e di amore bello.
Per te sia buono il mattino.
Non hanno conosciuto un paese che vola su ala di farfalla
e il richiamo di una coppia di uccelli all’alba lontana
e una bambina triste
per un sogno semplice e buono
che un caccia ha scaraventato nella terra dell’impossibile.
Per te sia buono il mattino.
No, loro non hanno amato la terra che tu hai amato
intontiti da alberi e ruscelli sopra gli alberi
non hanno visto i fiori sopravvissuti al bombardamento
che gioiosi traboccano e svettano come palme.
Non hanno conosciuto Gerusalemme … la Galilea
nei loro cuori non c’è appuntamento con un’onda e una poesia
con i soli di dio nell’uva di Hebron,
non sono innamorati degli alberi con cui tu hai parlato
non hanno conosciuto la luna che tu hai abbracciato
non hanno custodito la speranza che tu hai accarezzato
la loro notte non si espone al sole
alla nobile gioia.
Che cosa diremo a questo sole che attraversa i nostri nomi?
Che cosa diremo al nostro mare?
Che cosa diremo a noi stessi? Ai nostri piccoli?
Alla nostra lunga dura notte?
Dormi! Tutta questa morte basta
a farli morire tutti di vergogna e di sconcezza.
Dormi bel bambino

di Maria Rosaria Greco

Hebron e le sue donne stanno a cuore alla città di Salerno. Dopo l’incontro con Arwa Abu Haikalorganizzato nell’ambito della rassegna “femminile palestinese” in cui abbiamo parlato della tenacia e fermezza, della somod nella resistenza di intere famiglie palestinesi a Tel Rumeida, cuore storico della città, ora arrivano a Salerno Nawal Slemiah, L. Awawda e M. Sharawna  della cooperativa “Women in Hebron”.

Sabato16 aprile alle 17,30 presso il CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico) di Salerno, la cooperativa “Women in Hebron”  incontra le realtà salernitane per spiegare questa esperienza importantissima di impresa sociale, che non rappresenta solo un’occasione di guadagno per le donne coinvolte, ma prima di tutto un’occasione di emancipazione in un contesto socioculturale conservatore. Nawal Slemiah, attuale direttrice, fonda la cooperativa nel 2005 nella città vecchia iniziando a vendere alcuni manufatti nel Suq, in area H2, a pochi passi dalla moschea di Ibrahim. Oggi la cooperativa è cresciuta, da un tavolino lungo la strada è passata a un laboratorio permanente nella città vecchia. Vende prodotti artigianali, borse, portafogli, sciarpe, cuscini, tappeti, tutti fatti a mano da più di 120 donne provenienti dai villaggi nelle colline a Sud di Hebron.

Women in Hebron” è la prima e unica cooperativa di sole donne nell’area ed è stata istituita per fornire alle donne del distretto le risorse per provvedere a se stesse e alle loro famiglie attraverso la produzione e la vendita di oggetti di artigianato palestinesi. “L’obiettivo della nostra cooperativa” ha spiegato Nawal Slemiah “è quello di spingere le donne fuori di casa, offrire loro un lavoro, un’attività, che le renda indipendenti dal salario dei mariti”

Da Hebron,  cuore dell’occupazione israeliana più intransigente in Cisgiordania, ma anche città dal contesto sociale particolarmente maschilista, ci arriva un doppio messaggio di grande vitalità e forza. Una cooperativa di sole donne  afferma, da un lato, l’identità palestinese con la produzione di prodotti artigianali tipici e, dall’altro, una coscienza femminile che affronta e combatte pregiudizi e retaggi culturali che vogliono la donna rinchiusa fra le mura domestiche.

L’incontro salernitano è organizzato dall’associazione  culturale Andrea Proto nell’ambito del tour curato dall’associazione di Amicizia Italo Palestinese che prevede appuntamenti in varie città: Firenze (11 aprile) Viareggio (13 aprile) Napoli (15 aprile).

Il 16 aprile quindi tutti a Salerno, alle 17,30, al CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico) per incontrare N. Slemiah, L. Awawda e M. Sharawna di “Women in Hebron”. Modera l’incontro Rosa Schiano, attivista di International Solidarity Movement a Gaza. Introduce Franz Cittadino (asilopolitico.org).

Sarà inoltre possibile acquistare i prodotti manufatti della cooperativa che per l’occasione saranno in esposizione. Ci saranno prodotti palestinesi tradizionali ricamati come borse, abiti, federe e centrini. In più diverse kefiah e tappeti. Non avete ancora una kefiah? Bisogna provvedere

Maggiori info
http://www.ecn.org/asilopolitico/incontro-cooperativa-women-in-hebron/ (sito CSA Jan Assen (Ex Asilo Politico)
www.womeninhebron.com (sito della cooperativa Women in Hebron)

Scene from Peter Kosminsky’s film “The Promise” which re-enacts events at Qurdoba School (Hebron) in 2005 in which Faryel Abu Haikal protects her students. In Salerno in March, the 21 we’ll host her daughter Arwa Abu Haikal

di Maria Rosaria Greco

Arwa è una donna libera e forte, nelle sue vene scorre il sangue degli Abu Haikal di Hebron. È con noi nella rassegna “Femminile palestinese”per raccontarci la sua storia, nel talk “Incontro con Arwa” (organizzato insieme a International Napoli Network, Casa del Conteporaneo, NenaNews Agency) che si tiene il 21 marzo 2016 a Salerno. Il sottotitolo di questa terza edizione è “l’occupazione oggi” e Arwa ci porterà con sé, nella vita di tutti i giorni, fra quelle strade fantasma piene di checkpoint, in quelle scuole e case violate dai militari armati, in quella che forse più di tutte in Palestina è la città emblema dell’occupazione.

Arwa Abu Haikal è di Al Khalil, antica città araba oggi chiamata Hebron da Israele. Lei, sua madre Faryel e la sua famiglia difendono da decenni le loro case e la loro terra dagli attacchi dei coloni del vicino insediamento illegale di TelRumeida. Qui i coloni, protetti dai militari israeliani, sono famosi per essere particolarmente ultranazionalisti, fra i più pericolosi in Cisgiordania. Uno di loro tempo fa ferisce gravemente Arwa con un bastone di legno durante una delle tante aggressioni di massa. Come conseguenza la famiglia Abu Haikal viene condannata al pagamento di una multa di 1.500 shekel. A Hebron se sei arabo non hai diritti e non puoi essere vittima. Il paradosso è che qua gli oppressi devono pagare per l’aggressione subita dall’oppressore.

Le quattro case della famiglia sorgono sulla collinetta di TelRumeida, nel centro storico di Al Khalil, un tempo erano immerse fra gli alberi. Ora sono circondate da insediamenti ebraici da cui spesso partono spedizioni punitive contro la loro proprietà ormai rinchiusa fra recinzioni, filo spinato e avamposti militari. Incendi dolosi e minacce continue da parte dei coloni, pesanti multe inflitte come punizioni arbitrarie, perquisizioni violente da parte dei militari che entrano armati nelle loro case e picchiano uomini e donne, sono la “normale” vita quotidiana.

Qui siamo in area H2, controllata da Israele. Tutto inizia nell’aprile del 1968 quando il rabbino Moshe Levinger, con la scusa di trascorrere la Pasqua ebraica qui,  arriva con un primo nucleo di coloni che si stabiliscono al Park Hotel, nel cuore di Hebron, per non andare mai più via e continuare progressivamente dal suo interno l’occupazione della città. Poi nel febbraio 1994 il colono Baruch Goldstein, un fanatico di origine americana, entra nella moschea e spara sui fedeli in preghiera, uccidendo 29 palestinesi. La strage subita, purtroppo, in questo luogo abbandonato dal diritto non è sufficiente per certificare chi è la vittima e chi è il carnefice. Così paradossalmente vengono puniti i palestinesi che assistono impotenti, con il protocollo di Hebron del 1997, alla divisione (che doveva essere provvisoria) della loro città in H1 e H2. Dopo 22 anni, in H2 vivono circa 600 coloni protetti da 2000/3000 militari israeliani. Prima della divisione, i palestinesi residenti nella Città Vecchia erano 10mila, dopo quella data con il tempo il 96% dei palestinesi ha abbandonato l’area.

È umanamente impossibile vivere in un luogo in cui i coloni, arrivati da varie parti del mondo con convinzioni fanatiche, occupano con la forza la tua casa che appartiene da secoli alla tua famiglia, in cui sei costretto a subire aggressioni e umiliazioni giorno dopo giorno, in cui l’esercito israeliano chiude il tuo negozio arbitrariamente senza sapere fino a quando (come in Shuhada Street, che prima era il cuore economico della città, ora è diventata una strada fantasma). I coloni possono tutto, si muovono in un regime di totale impunità in cui violenza e sopruso sui nativi palestinesi sono il linguaggio quotidiano. Però io penso sia ancora più umanamente impossibile far finta di niente, tacere di fronte a tutto questo dalle nostre comode postazioni occidentali.

La famiglia Abu Haikal resiste, rimane, nonostante tutto. L’esercito israeliano ha provato in tutti i modi a prendersi le loro case, sono state offerte cifre incredibili per convincerli a vendere e andare via. Ma niente ha smosso la loro ferma volontà di restare. Nel 2014, i coloni decidono di usare un’altra arma, chiedono l’approvazione di un’imponente progetto che viene finanziato e iniziano i lavori. Un grande parco archeologico ebraico sorgerà proprio dove c’erano i mandorli e gli ulivi della famiglia Abu Haikal. Si cercano importanti reperti ebraici, solo che nel febbraio 2014, viene scoperta una antica tomba musulmana costruita in pietra direttamente sulla roccia e orientata verso La Mecca. La tomba viene smantellata a dispetto di qualsiasi etica di tipo archeologico o religioso. Nessun diritto neppure per i morti qui a Hebron e nessun rispetto soprattutto per la memoria storica, che anzi va cancellata.

Ho visto da vicino questo scavo archeologico, che è proprio a ridosso della proprietà Abu Haikal tanto da spingere tempo fa Arwa e la madre Faryela contrapporsi per ore ai bulldozer che volevano scavare via i loro alberi, la loro recinzione. Due donne apparentemente indifese, il loro corpo come unica arma, eppure tanto forti da determinare il blocco dello scavatore.

Quando guardai lo scavo archeologico, nel novembre 2014, rimasi colpita tra l’altro da un particolare: la manodopera era palestinese, come accade anche nelle colonie israeliane dove agli arabi toccano i lavori più umili, spesso senza assicurazioni e per quattro soldi. È l’umiliazione ulteriore dell’occupazione.

Ovviamente l’obiettivo chiaro è quello di eliminare, con il tempo, qualsiasi presenza palestinese: Israele vuole la terra senza i nativi dentro. La colonizzazione quindi avanza e l’archeologia è solo uno degli strumenti usati per cambiare di fatto lo status quo. Altri siti archeologici hanno la stessa funzione, accade per esempio a Gerusalemme con la Città di David che incombe sul quartiere arabo di Silwan. L’archeologia è un modo per sottrarre terra in zone strategiche. Hebron è particolarmente importante perché considerata dalla comunità ebraica la città dei patriarchi e per questo qui ci sono i coloni più intransigenti che purtroppo producono ragazzini violenti.

Anni fa la madre di Arwa insieme alla sua classe fu presa a sassate da ragazzini coloni. Faryel era la preside dell’istituto femminile, ora è in pensione, ed è sempre stata simbolo ed esempio di resistenza qui a TelRumeida. C’è un episodio famosissimo ripreso da un attivista internazionale che gira in rete e che è stato poi rivisitato in una serie tv britannica. Ragazzine israeliane, fra canti e inni da stadio, aspettano le loro coetanee palestinesi che escono da scuola e iniziano a insultarle, spintonarle. Il tutto sotto gli occhi dei militari israeliani che non alzano un dito. Faryel protegge le sue allieve con il suo corpo cercando di allontanarle dal pericolo, ma vengono assalite anche da ragazzini israeliani che lanciano loro sassi a distanza ravvicinata. Una fitta sassaiola arriva su queste ragazze spaventate che cercano di ripararsi il viso, la testa, mentre sanguinanti cercano di scappare. Questo significa vivere a Hebron.

Ma come la famiglia Abu Haikal ci sono altre famiglie che, con grande coraggio, decidono di rimanere anche se costrette a vivere sotto perenne assedio, intrappolate in una città paralizzata da oltre 120 checkpoint, da muri, barriere e pattuglie militari che limitano ai palestinesi tutto. Qui a Tel Rumeida ho conosciuto un’altra famiglia palestinese che resiste da anni alle violenze dei coloni e dei militari. Sono entrata nella casa del dottor Taiseer Zahdeh e di sua moglie Ibtisam HussienBlbesi per ascoltare la loro storia. La loro accoglienza è stata calorosa e totale come in tutte le case palestinesi, hanno diviso con noi il loro cibo e i loro sorrisi e hanno ricordato con grande dignità tutte le umiliazioni, le aggressioni, le minacce subite da tutta la famiglia.

Il dottor Zahdeh ha raccontato di aver avuto per mesi più di 40 soldati accampati sulla terrazza di casa, è stato arrestato, picchiato; lui, sua moglie e sua figlia. Ha raccontato le stesse violenze che sono costretti a subire tutti coloro che a Hebron decidono di non arrendersi, di non andare via. Ha infine spiegato di aver rifiutato tutte le offerte di un ufficiale israeliano che voleva comprare la sua casa ad ogni costo, fino a spegnere ogni proposta affermando con grande coraggio: “Il prezzo di questa casa è una pallottola”.

La famiglia Abu Haikal e la famiglia Zahdeh nonostante tutto resistono, mentre noi in Occidente non vediamo nulla, ignoriamo o semplicemente fingiamo di non vedere. È questo che io considero umanamente impossibile: il nostro colpevole silenzio.

Non si può più consentire questo silenzio, negli ultimi mesi la situazione è particolarmente incandescente in tutta la Palestina, ma soprattutto a Hebron. Islam,Hamam, Hadeel, Mohammed, Jasmine, Dania, sono solo alcuni dei nomi delle giovani vite sacrificate qui in una spirale di violenza iniziata lo scorso ottobre 2015. Nell’intero distretto di Hebron, secondo Issa Amro, fondatore dell’organizzazione nonviolenta Youth Against Settlements (Giovani contro gli insediamenti), le vittime palestinesi dall’inizio di ottobre sono più di 50. Spesso sono giovanissimi, giustiziati a vista dai militari in esecuzioni extragiudiziali, quasi sempre vengono lasciati morire dissanguati sulla strada. I militari li accusano di aggressioni, parlano di coltelli fra le loro mani, mentre molte fonti internazionali o palestinesi smentiscono.

Come conseguenza, vengono applicate sistematiche punizioni collettive, come la chiusura ciclica di alcune aree dichiarate “zona militare chiusa”, o del checkpoint di Shuhada Street (n. 56, che collega/divide l’area H2 con H1) dichiarato chiuso per “restauro”. Ma soprattutto sono state chiuse, ad oggi lo sono ancora, le due sedi di organizzazioni per i diritti umani a Tel Rumeida: Youth Against Settlements e l’ISM (International Solidarity Movement), una Ong internazionale. Le due organizzazioni non violente monitoravano le violazioni dei diritti umani e civili, ora nell’area H2 non c’è nessuna forma di tutela e di supervisione.

Secondo il diritto internazionale le punizioni collettive sono illegali. L’articolo 33 della quarta Convenzione di Ginevra dichiara che “nessuna persona protetta può essere punita per un reato che lui o lei non ha commesso personalmente. Pene collettive, come pure qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo sono proibite”.

Arwa conosce bene tutto questo. Mi ha particolarmente colpito una sua frase con cui ha concluso una nostra chiacchierata in cui si parlava della vita quotidiana a Tel Rumeida: “Welcoming a new day with no explanation for what is going to happen. For us and our families – Diamo il benvenuto ad un nuovo giorno in cui non ci sono spiegazioni per quanto succederà. A noi e alle nostre famiglie”.Le sue parole mi hanno lasciato senza fiato. Sono insieme amare e di grande lucidità. Spiegano lo stato d’animo di chi, giorno dopo giorno, affronta l’occupazione militare in solitudine, nel silenzio della comunità internazionale, eppure dando il benvenuto a un nuovo giorno con grande coraggio e determinazione. In questa frase è racchiuso il radicamento profondo alla terra e l’appartenenza alla famiglia. Sono parole che trasudano energia e una grande forza: “resisteremo” sembra dire a tutte noi “Non andremo via”. E noi vogliamo stare con Arwa, con gli Abu Haikal, con tutte le donne e gli uomini che, pur vivendo a Hebron, sanno essere liberi dando il benvenuto a un nuovo giorno.

Per informazioni:

www.femminilepalestinese.it
https://www.facebook.com/femminile.palestinese/

pubblicato su Nena News Agency

di Maria Rosaria Greco

Ma quale ipocrita memoria, guardiamola oggi la nostra bella Europa.
Ad Amsterdam viene ufficialmente annunciata la richiesta di estendere fino a due anni (anziché sei mesi) i controlli alle frontiere. Schengen sta naufragando insieme ai barconi carichi di disperazione. E non parliamo solo di Ungheria, Croazia, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Austria, ma parliamo delle civilissime Germania, Danimarca, Svezia, Francia. La Grecia invece si vede accusata di non essere abbastanza dura, dovrebbe lasciare morire i migranti che si accalcano sulle sue coste. Per questo la Germania la vorrebbe addirittura fuori da Schengen.
Noi non la vogliamo questa Europa!
In Danimarca una legge permette di sequestrare i beni ai migranti per poter pagare le spese di accoglienza. Che vergogna, abbiamo sottratto loro tutto, abbiamo occupato le loro case, le loro identità, le loro vite, ora li umiliamo spiegando bene fin da subito che cos’è la nostra democrazia occidentale.
Noi non la vogliamo questa Europa!
E la Francia, dove ormai da mesi vige lo stato d’emergenza che verrà prorogato ulteriormente secondo il volere del democratico Hollande, valori come libertà, diritto, cittadinanza sono desueti. Secondo il filosofo Agamben arrivare ai totalitarismi è un attimo. In Germania i campi di sterminio sono stati possibili grazie allo smantellamento dello stato di diritto. Braccialetti elettronici imposti in nome della sicurezza a persone giudicate pericolose senza sufficienti elementi di incriminazione: accade oggi nella storica democrazia francese.
Noi non la vogliamo questa Europa!
Ha ragione di piangere la Cosette di Bansky apparsa in questi giorni sulle mura dell’Ambasciata francese a Londra: dietro di lei la bandiera francese tutta logora, stracciata e davanti una bomboletta di gas lacrimogeno. Evoca i Miserabili di Victor Ugo in difesa dei migranti accampati nella baraccopoli di Calais che cercano di entrare in Gran Bretagna. C’è anche un codice Qr che rimanda al video dell’Ong Calais Migrant Solidarity.

Tutto questo accade oggi in Europa, non nel passato, dovremmo vigilare e alzare la voce ora invece di fingere di guardare altrove

‪#‎notmyeurope‬ ‪#‎saveschengen‬ ‪#‎bansky‬

di Maria Rosaria Greco

23 settembre 2015 – La foto che vediamo in copertina è un selfie, come ne scattiamo tutti quando siamo in vacanza. Sono Mahmoud e Sireen, marito e moglie, sorridenti perché stavano andando in vacanza con amici per qualche giorno in Giordania, dove purtroppo non sono mai arrivati. Sono stati arrestati entrambi il 9 settembre scorso, al ponte di Allenby. Lei è stata rilasciata dopo 4 ore e lui è ancora in carcere, ad Ofer (vicino Ramallah), accusato di aver lanciato pietre a una manifestazione alla quale Mahmoud non ha mai partecipato. Questa è la loro ultima foto insieme.

E’ una storia che si ripete spesso, quella di molte donne che vedono arrestato il proprio marito dall’esercito israeliano, senza un motivo. Sireen Khudairi è una nostra amica, un’attivista della JVS (Jordan Valley Solidarity), con lei siamo state nei villaggi di Fasayil e Al Hadidiya nella Valle del Giordano, lui si chiama Mahmoud Abujoad Frarjah, anche lui attivista della stessa organizzazione.

Il 16 settembre scorso è stato portato davanti al Giudice della Corte Militare che ha deciso il rinvio del suo caso al 20 settembre. Quando si è ripresentato davanti al giudice, Mahmoud, che da subito ha dichiarato la sua innocenza, ha appreso di dover pagare una cauzione di 8.000 shekel (circa 2000 euro) per poter essere rilasciato. Ma le unità investigative interne (shabback) hanno chiesto al giudice di trattenere Mahmoud fino al giorno successivo. Il 21 settembre, infine, a Mahmoud è stato comunicato che il suo caso veniva rinviato al 27. Queste sono le pratiche illegali che abitualmente esercita Israele nei confronti dei tanti prigionieri palestinesi. Nessun rispetto della convenzione di Ginevra, delle leggi internazionali e nessuna presunzione di innocenza. Un palestinese di fronte alla legge israeliana è innanzitutto colpevole, a suo carico è l’onere di provare la sua innocenza. Mahmoud Abujoad Frarjah, nato a Gerusalemme il 3 agosto 1986, ha già subito il carcere a 20 anni, rinchiuso in una prigione israeliana per 34 mesi. Le sue colpe? L’impegno contro l’occupazione della sua terra.

Sia Mahmoud che Sireen sono attivisti della JVS, un’organizzazione che attraverso la solidarietà internazionale vuole tutelare i diritti dei palestinesi che vivono nella Valle del Giordano, quei pochi rimasti, i quali quotidianamente vengono espropriati di tutto, della terra, dell’acqua, della libertà, dell’istruzione, della vita. Qui siamo in area C dove Israele non permette ai palestinesi di costruire, nulla, ovviamente neppure le scuole. Lo scorso 20 agosto ha distrutto con i suoi bulldozer una scuola a Khirbeit Samra, nel nord della Valle, ha demolito le quattro aule ed i materiali didattici che si trovavano dentro. La scuola era stata costruita nel 2014, con l’aiuto dei volontari internazionali della Jordan Valley Solidarity in supporto ai palestinesi locali.

Qui i bambini, secondo Israele, non hanno diritto all’istruzione, non possono neppure completare un ciclo completo di istruzione primaria. E sempre qui, intere aree vengono sottratte alla popolazione in quanto dichiarate improvvisamente “firing zone”, zone destinate all’addestramento militare e quindi espropriate. Come pure sono controllate le fonti idriche della valle per il 98%. Qui quindi l’attività della JVS è fondamentale per sostenere i palestinesi costretti a vivere in povertà e senza diritti, con il terrore di continui ordini di demolizione di case, scuole, nel silenzio assoluto della comunità internazionale.

Con Sireen abbiamo visto da vicino alcuni di questi villaggi, Fasayil e Al Hadidiya. A Fasayl abbiamo mangiato insieme la mujaddara (riso e lenticchie con cipolle soffritte, un piatto arabo medievale consumato dai poveri) e ci ha spiegato come Israele dal 1967 ad oggi, si sia impossessato di tutto: della terra, dell’acqua, di tutte le risorse. Questa valle da sempre fertile e ricca di fonti idriche oggi è desertificata. L’acqua viene dirottata nelle 37 colonie agricole illegali israeliane della valle del Giordano, nelle quali si fa agricoltura intensiva destinata all’esportazione, mentre i campi beduini, privati del diritto all’acqua, sono costretti a comprare le autobotti dalla compagnia idrica israeliana che costano più di 30 shekel al metro cubo. Le vicine colonie israeliane ricevono acqua corrente in ogni momento dell’anno 24 ore su 24 a meno di 3 shekel a metro cubo.

Al Hadidiya in particolare ha una situazione estremamente critica: il consumo medio al giorno è di 20 litri pro capite (l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica un minimo di 100 litri pro capite), nella colonia israeliana di Ro’i costruita su terre confiscate ad Al Hadidiya, a meno di 100 metri di distanza, si utilizzano 431 litri pro capite al giornosolo per uso domestico, senza considerare il consumo agricolo. Eppure, in questo villaggio poverissimo, fatto di tende e tank per l’acqua, con le galline che razzolavano intorno a noi, siamo state accolte con tutto il calore che si riserva a un ospite di riguardo, abbiamo bevuto caffè e tè servito per darci il benvenuto. Quanto della loro preziosa acqua quotidiana ci è stato donato con quel tè e caffè accompagnati dai loro sorrisi?

Queste sono le persone per cui si battono Sireen e suo marito Mahmoud. Questa è la dignità di un popolo che resiste all’occupazione illegale. La JVS porta nel suo brand proprio questo motto “to exist is to resist” esistere è resistere. Per questo Israele ha arrestato Mahmoud Abujoad Frarjah, perché fa paura il suo esempio, fa paura questa dignità che non si piega. “Mahmoud presto sarà libero – ci ha detto oggi Sireen – Ne sono sicura. Il fiore che rappresenta la Jordan Valley Solidarity è il cardo (Khorfishi), un fiore particolarmente resistente, spesso cresce fra le rocce, cresce nonostante tutto. E per noi è un segno di speranza”

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di Maria Rosaria Greco

In questi mesi abbiamo assistito inermi alla distruzione di Mosul, in Iraq, e di Hatra e di Nimrud da parte delle milizie dello Stato Islamico. Tutto il mondo si è indignato di fronte alla devastazione di un patrimonio culturale appartenente all’intera umanità. Sappiamo tutti purtroppo che l’Isis è uno stato terrorista. Di poche ore fa è la notizia dell’uccisione assurda dell’archeologo Khaled Asaad , ex direttore delle antichità e dei musei del sito archeologico di Palmira, in Siria, decapitato dagli uomini del Califfato perché colpevole di aver messo in salvo centinaia di statue romane.

In questi giorni invece abbiamo visto i bulldozer di Israele a Beit Jala, a 5 km da Betlemme, nella valle di Cremisan, che hanno sradicato circa un centinaio di ulivi, tra cui molti secolari, per preparare il tracciato su cui costruire il vergognoso “Muro di separazione”, che isolerà Cremisan da Beit Jala e quindi dalla Palestina. Tutta l’area di fatto viene inglobata in territorio israeliano, confiscandola alle 58 famiglie palestinesi proprietarie, per unire le due colonie di Gilo (residenza di Fiamma Nirenstein, prossima ambasciatrice di Israele in Italia) e Har Gilo. A nulla sono valse le azioni legali e le proteste durate nove anni, da parte sia della comunità palestinese. Insieme alle famiglie palestinesi e al Comune si sono costituiti il Monastero salesiano, che produce il noto vino Cremisan, e la Scuola materna, gestita dalle suore, che ospita più di 400 bambini di varie religioni. Vogliamo solo ricordare che i vitigni autoctoni di Cremisan producono vino dalla fine dell’Ottocento, secondo gli archeologi qui si trova uno tra i più antichi insediamenti agricoli e artigiani della Palestina. E sempre in questa zona si trova Battir, un villaggio proclamato dall’Unesco patrimonio dell’umanità.

La Corte Suprema d’Israele, dopo un apparente accoglimento delle richieste della popolazione locale nell’aprile scorso, con una nuova disposizione del 7 luglio us (casualmente subito dopo che la Santa Sede aveva riconosciuto ufficialmente lo stato di Palestina) si è rimangiata tutto, autorizzando la costruzione del “Muro di separazione”, ma con un percorso lievemente alternativo. Il Ministero della Difesa dunque ha ottenuto quanto voleva, dovendo rinunciare soltanto alla scuola e ai due conventi salesiani, che, per ora, rimangono in territorio palestinese. La politica dei fatti continua, già le colonie di Gilo e Har Gilo erano state costruite su terra sottratta ai palestinesi, già Betlemme era stata tagliata dal muro di separazione e ora tutta la bellissima vallata di Cremisan verrà devastata, annientandone l’economia locale come già successo ovunque venga innalzato il muro.

Ma oltre al patrimonio paesaggistico e culturale di Cremisan, altri patrimoni vengono minacciati da Israele, in alcuni casi è già iniziata la distruzione. Il cimitero di Mamilla per esempio. Dall`arabo ma`man Allah, “santuario di Allah”, è il più grande e antico cimitero musulmano di Gerusalemme, risale al 7° secolo e contiene le tombe di compagni di Maometto, di santi di fede Sufi e di importanti famiglie di intellettuali e personalità di spicco gerosolomitane. Oltre a essere un luogo di fede, Il Consiglio Superiore Musulmano, nel 1927, lo definì luogo storico e le autorità del Mandato Britannico, nel 1944, lo dichiararono area archeologica. Il cimitero si trova nella parte ovest della città ed è rimasto attivo fino al 1948, quando Israele conquistò questa parte di Gerusalemme. Tel Aviv ne ha iniziato lo smantellamento per costruirvi sopra il “Museo della tolleranza”, che sarà composto da 192 unità abitative, un centro commerciale, un hotel da 480 camere e parcheggi per auto. Il tema del futuro Museo naturalmente è “il rispetto reciproco e la responsabilità sociale”. Ci piace pensare che una civiltà si misuri in base al rispetto che ha per i morti. Su questo poi si dovrebbe fondare l’eventuale rispetto per i vivi.

E rimanendo a Gerusalemme, molto preoccupante è la sorte di un altro luogo stupendo, sicuramente patrimonio culturale di grande rilievo, particolarmente caro ai fedeli delle tre religioni monoteiste, ma soprattutto ai musulmani: la spianata delle Moschee, considerata dall’Unesco e patrimonio dell’umanità come pure tutta la città vecchia di Gerusalemme. Tutta quest’area fu occupata da Israele nel 1967, e nel 1980 il parlamento israeliano approvò la cosiddetta “legge fondamentale” che proclamava unilateralmente “Gerusalemme, unita e indivisa […] capitale di Israele”. Ma il Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella risoluzione 478 annullò la “legge fondamentale” definendola “nulla e priva di validità, oltre che una violazione del diritto internazionale e un serio ostacolo al raggiungimento della pace in Medio Oriente”

Eppure si fanno sempre più insistenti le voci, le provocazioni, le aspettative, gli scontri relativi proprio alla Spianata delle Moschee, che, per inciso, non esiste su Wikipedia: se si digita infatti “spianata delle moschee” appare la pagina “Monte del Tempio” come la chiamano gli Ebrei, che strane queste dinamiche di ricerca, vero? Ora, non esistendo in effetti come prima voce, (nella pagina “Monte del Tempio” poi se ne parla ovviamente, come secondo passaggio però) l’Istituto per il Tempio legittimamente progetta, in maniera sempre più concreta, la ricostruzione del terzo Tempio ebraico, esattamente dove da 1300 anni è situata la Cupola della Roccia islamica. Qualche anno fa sembravano bizzarre le pretese di pochi fanatici che ora, invece, sono sostenute da ministri e deputati. I primi a parlare di ricostruire il Tempio sono stati “I Fedeli del Monte del Tempio”, un gruppo guidato dal rabbino Yehuda Glick, attivista dell’ultra-destra, che nello scorso novembre rimase ferito in un attentato (il presunto attentatore di 32 anni fu subito ucciso dall’esercito israeliano in una esecuzione sommaria sulla terrazza di casa sua, casa che venne naturalmente demolita). Glick è stato protagonista di molte incursioni sulla spianata, con lo scopo di estendere la sovranità israeliana sulla Spianata delle moschee, contro le leggi stesse di Israele che vi vietano l’ingresso ai fedeli ebrei, i quali, dal 1967, hanno come luogo per il culto il Muro Occidentale detto Muro del pianto. Queste incursioni sono aumentate sempre più, gestite dai giovani di Casa Ebraica, e sempre più in maniera ufficiale si parla di costruire il tempio ebraico che ovviamente significherebbe smantellare la spianata delle Moschee, terzo luogo santo dell’Islam. Proviamo per un attimo a pensare se un musulmano provasse a presentarsi al Muro del pianto per pregare, quale sarebbe la reazione e lo sdegno di tutta la comunità internazionale? E Israele tutta sarebbe scossa da un terremoto. Eppure l’Istituto del Tempio a Gerusalemme, con assoluta naturalezza, da quasi trent’anni progetta la ricostruzione del Tempio ebraico. Oggi nella Knesset, il Parlamento israeliano, ci sono ben 12 deputati che sostengono questo progetto, in tutti i modi. Quando assisteremo quindi alla demolizione della Cupola della Roccia?

Israele sta sistematicamente cancellando il passato dei palestinesi, distruggendone il patrimonio culturale e paesaggistico, esattamente come fa l’Isis. Solo che il Califfato viene definito da tutti uno stato terrorista, colpevole tra l’altro di assurde esecuzioni. Eppure l’esercito israeliano dall’inizio dell’anno a oggi ha ucciso 25 giovani in Cisgiordania, senza parlare delle violenze di queste ore contro chi manifesta legittimamente nella valle di Cremisan per difendere la propria terra, i propri alberi, i propri diritti. Ma allora perché Israele viene definita l’unica democrazia nel Medio Oriente?

pubblicato su NenaNews.it 

Il 27 aprile a Salerno alle 18.30 il professore dell’Università di Exeter discuterà di quella che nei suoi libri definisce “la pulizia etnica della Palestina”. Per l’occasione vi riproponiamo il video-intervista di Nena News.

di Rassegna Femminile Palestinese

Salerno, 24 aprile 2015, Nena News – La conferenza con Ilan Pappé “La pulizia etnica della Palestina” è il quarto appuntamento della rassegna “Femminile Palestinese – di storia in storia” a cura di Maria Rosaria Greco, il 27 aprile pv alle 18,30 al Salone dei Marmi di Palazzo di Città di Salerno.

Con lo storico israeliano dialogano: Giso Amendola, Professore Ordinario di Sociologia del diritto all’Università degli Studi di Salerno – Ermanno Guerra, Assessore alla Cultura e Università del Comune – Maria Rosaria Greco, Moderatrice.

Ilan Pappé è israeliano, nato ad Haifa da genitori sopravvissuti alla persecuzione nazista. Professore Ordinario nel Dipartimento di Storia dell’Università di Exeter (UK) è uno storico di fama internazionale. Intellettuale e studioso comunista, socialista e anti-sionista, è cofondatore della “Nuova storiografia israeliana” che ha come scopo, scientifico ed etico, il riesame delle linee ricostruttive storiche della nascita dello Stato d’Israele e del sionismo. Egli sostiene per esempio che l’esodo palestinese del 1948 (Nakba) è assimilabile a una vera e propria “pulizia etnica” partorita dalle politiche pianificate da David Ben Gurion già nel dicembre 1947, messa in opera quindi prima della proclamazione dello Stato d’Israele (maggio 1948). Famosissimo il suo libro “La pulizia etnica della Palestina” Fazi editore, in cui appunto sostiene questa tesi supportato da fonti ufficiali israeliane secretate per anni.

Il racconto quindi continua. Il sottotitolo 2015 della rassegna “Femminile palestinese” è “di storia in storia” proprio perché il focus di quest’anno è il racconto, la narrazione, il recupero della memoria, di un popolo a cui quotidianamente viene negata la propria identità culturale e nazionale. Con lo storico Ilan Pappé sarà possibile approfondire e capire qual è la vera storia della Palestina e contrastare questa sistematica azione di memoricidio.

Per l’occasione la redazione di Nena News vi ripropone il video-intervista con Ilan Pappé dello scorso febbraio:

 di Maria Rosaria Greco

Gerusalemme, 12 novembre 2014 – Hanno occhi stupendi e sanno sorridere. Sanno anche alzare la voce senza abbassare lo sguardo. Di alcune conosco il nome, di altre mi rimarrà solo il ricordo di un volto, di una voce, di un momento. Sono bambine e donne incontrate nelle strade di Ramallah, nelle case di Hebron, sugli autobus 21 e 24 da e per Gerusalemme, ai checkpoint e nei campi profughi intorno Betlemme, nelle comunità beduine della valle del Giordano o sulla spianata delle Moschee a Gerusalemme.

“Allahu Akbar, Allahu Akbar” gridavano forte, ragazze e anziane in preghiera, erano centinaia e tutte compatte, davanti alla Moschea Al Aqsa. Lo sdegno si levava contro la profanazione del loro luogo sacro da parte di alcuni coloni che per provocazione passeggiavano indisturbati sulla spianata delle moschee, protetti dai mitra dei soldati israeliani e con l’intento di pregare lì, in uno spazio normalmente proibito alle preghiere non musulmane. Un’unica voce di sdegno la loro e un unico brivido alla schiena il mio nell’ascoltare, quasi toccare con mano questa rabbia tangibile, incarnata da donne per nulla intimorite dai militari in assetto da guerra, donne che, nei cliché di noi occidentali, vivono sottomesse.

Invece di Shirin conosco il nome e la sua storia incredibile, purtroppo simile a quella di molte altre donne in Palestina, conosco il colore miele dei suoi occhi, il suo sguardo fiero. Ha 34 anni, non è sposata e vive con i genitori e la zia a Husan, un villaggio nell’aera di Betlemme, circondato da una bypass road, dal muro che lì è una barriera metallica, e dalla colonia di Bitar Illit (di circa 50 abitanti) costruita su terra confiscata agli abitanti di Husan. Shirin ha 5 sorelle e 2 fratelli. Nel 2003 suo fratello, con laurea specialistica in legge, viene arrestato perché accusato dell’organizzazione di un attentato terroristico. Oggi deve scontare una condanna di 9 ergastoli, Shirin ne parla con la certezza di non riuscire a vederlo mai più.

Nel 2004 le forze israeliane demoliscono la sua casa. Come di consueto arrivano alle 2 di notte, concedendo alla famiglia solo 15 minuti per prendere gli oggetti personali. Quindici minuti per portare con te la tua vita sono una ferita lacerante. Quindici minuti prima che venga distrutto per sempre un pezzo di te. Che cosa si può portare con sé in 15 minuti se non il dolore più profondo? E siccome siamo in area C, chi vede la propria casa abbattuta poi non ha il diritto di ricostruirla. Quindi Shirin e la famiglia vivono in affitto per anni fino a quando, circa due anni fa, riescono ad ottenere il permesso di costruire dietro il pagamento di una cifra enorme (10 mila dinari giordani) e si trasferiscono nella casa nuova.

Per fortuna la sua famiglia ha molte terre, anche se molti ettari sono stati loro confiscati dalle autorità israeliane. Hanno costantemente problemi con i coloni che, per esempio, a maggio scorso hanno bruciato 156 alberi di ulivo nei loro campi. Due settimane fa il suo secondo fratello di soli 24 anni, l’unico ancora libero, è stato arrestato con l’accusa di aver tirato sassi contro l’esercito israeliano. Hanno fatto incursione di notte e l’hanno portato via. Di tutta la famiglia solo una sorella è riuscita ad avere il permesso per andare a trovare il fratello in prigione in Israele. Shirin ce l’aveva e poi improvvisamente un giorno, mentre era al checkpoint, gliel’hanno ritirato senza spiegazioni.

Eppure, mentre mangiavamo insieme la mujaddara (riso e lenticchie con cipolle soffritte, un piatto arabo medievale consumato dai poveri), lei mi sorride perché sa ancora sorridere e resistere. E mi viene in mente quel detto arabo che recita che “un uomo affamato sarebbe disposto a vendere l’anima per un piatto di mujaddara”. Sorrido anch’io a Shirin, mentre ho un’idea curiosa: per un attimo mi diverte pensare che forse un uomo affamato potrebbe anche vendere la sua anima per un piatto di lenticchie e riso, come è scritto anche nella bibbia, ma Shirin no, lei non lo farebbe mai.

Ma l’incontro che mi ha devastato è stato con una bambina bionda dagli occhi azzurri, di circa 7 o 8 anni, il sorriso sdentato di chi ha perso da poco i denti da latte. Mi ha fatto piangere facendomi sentire io più bambina di lei. Eravamo nel campo beduino di Al Hadidiya dove abbiamo incontrato, insieme alla sua famiglia, Abu Saqr, il capo di questa piccola comunità nel nord della Valle del Giordano, che ci ha spiegato come Israele si sia impossessato gradualmente dal 1967 ad oggi di tutto: della terra, dell’acqua. Questa valle da sempre fertile e ricca di fonti idriche oggi è desertificata. L’acqua viene dirottata nelle 37 colonie agricole illegali israeliane della valle del Giordano, nelle quali si fa agricoltura intensiva destinata all’esportazione, mentre i campi beduini, privati del diritto all’acqua, sono costretti a comprare le autobotti dalla compagnia idrica israeliana che costano più di 30 shekel al metro cubo. Le vicine colonie israeliane ricevono acqua corrente in ogni momento dell’anno 24 ore su 24 a meno di 3 shekel a metro cubo.

In particolare i dati del consumo quotidiano soprattutto qui nella comunità beduina Al Hadidiya mostrano una situazione estremamente critica: il consumo medio al giorno è di 20 litri pro capite (l’Organizzazione Mondiale della Sanità indica un minimo di 100 litri pro capite!), nella colonia israeliana di Ro’i costruita su terre confiscate ad Al Hadidiya, a meno di 100 metri di distanza, si utilizzano 431 litri pro capite al giorno, solo per uso domestico, senza considerare il consumo agricolo (una quantità d’acqua 20 volte superiore!).
Al Hadidiya è un villaggio poverissimo fatto di tende e tank per l’acqua, con le galline che razzolano intorno a noi mentre il sole tramonta e c’è una luce dorata che illumina di morbido i volti, i colori, il caffè che ci viene servito per darci il benvenuto. Mi chiedo quanto della loro preziosa acqua quotidiana ci è stato donato con il thè e il caffè che abbiamo bevuto.

E lei andava avanti e indietro nascondendosi fra gli adulti, questa bimba bionda con un maglioncino rosa, poi è sparita per ricomparire solo alla fine mentre stavamo lasciando il campo. Fa capolino da una tenda e ci sorride tutta sdentata. Appena sopra di lei, ferma sulla tenda, c’era una colomba bianca che per tutto il tempo non è volata via. Hadeel si dice in arabo colomba. Hadeel è anche un nome femminile diffuso. Mi piace pensare che Hadeel fosse il nome di questa bambina delicata e leggera. Si divertiva un mondo a farmi il verso: la saluto con la mano e lei saluta con la sua, le mando i bacini con la mano e lei ricambia, un amico le fa le boccacce e lei ripete.

Ma dovevamo andare via e io non riuscivo a staccarmi da lei così felice e così vitale: allora alzo il braccio con l’indice e il medio in segno di vittoria e lei mi risponde. Quel braccino tenero, vestito di rosa, quegli occhioni azzurri che potevano usare solo 20 litri di acqua al giorno, invocavano la vittoria. La sua manina alzata con il segno della V rimaneva fermamente tesa mentre ci allontanavamo da lei. Non sono riuscita a trattenere le lacrime.

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